Il clima cambiato di una generazione disastrata
Per chi come il sottoscritto ha meno di 35 anni, i racconti sull’ondata di maltempo del 1966 sentiti da genitori e nonni hanno sempre avuto un taglio talmente apocalittico da […]
Per chi come il sottoscritto ha meno di 35 anni, i racconti sull’ondata di maltempo del 1966 sentiti da genitori e nonni hanno sempre avuto un taglio talmente apocalittico da […]
Per chi come il sottoscritto ha meno di 35 anni, i racconti sull’ondata di maltempo del 1966 sentiti da genitori e nonni hanno sempre avuto un taglio talmente apocalittico da renderli quasi difficili da credere se non fossero stati supportati dalle immagini di quella devastazione. Oggi, a 52 anni di distanza da quell’episodio, ci troviamo di nuovo di fronte a un’emergenza di proporzioni simili, spalmata su tutto il territorio nazionale martoriato da vento e pioggia di estrema intensità. E così anche la mia generazione avrà il suo 1966 da raccontare.
Fermo restando che accostare calamità naturali in epoche diverse è un esercizio di poca utilità, in questo caso può però essere significativo fare una riflessione rispetto a che cosa è cambiato o non è cambiato da allora ad oggi. Quello che certamente è cambiato e sta cambiando è il clima, che in Italia non fa altro che mostrare i sintomi di un processo globale pericolosissimo proprio perché non sappiamo prevedere fino in fondo a che cosa potrà portare. Il riscaldamento globale (in questi giorni di inizio novembre insieme alle piogge torrenziali stiamo avendo temperature sopra i 15 gradi in molte zone del paese) sta intensificando i fenomeni atmosferici estremi, alternando sempre più sovente periodi di siccità a forti precipitazioni, introducendo anche inedite forme di tempeste molto simili a quelle tropicali. Le temperature dei mari sono più alte e questo genera ondate di rovesci inedite per intensità e durata.
D’altra parte va sottolineato che c’è anche qualcosa che in questi 50 anni non è affatto cambiato: il continuo e inarrestabile consumo di suolo naturale, che viene di anno in anno impermeabilizzato con la costruzione di nuovi edifici e di infrastrutture. Un processo che negli ultimi anni aveva subito un rallentamento e che invece l’ultimo rapporto ISPRA di pochi mesi fa rilevava nuovamente in accelerazione. Una cementificazione che non risparmia parchi nazionali e aree protette e che diminuisce la resilienza idrogeologica dei nostri territori rendendoli più vulnerabili proprio agli eventi atmosferici estremi che continueremo a veder aumentare. Uno scandalo tutto italiano (siamo i peggiori d’Europa) che mette seriamente a repentaglio il nostro futuro.
Se è innegabile che una relazione tra i due fenomeni ci sia, e allora è davvero giunto il momento che la politica nazionale prenda le dovute contromisure. È ora di varare una legge che fermi il consumo di suolo e che promuova la tutela del paesaggio. Prendendo in prestito una battuta fatta in questi giorni da Christian Raimo, «meglio persino essere un ambientalista da città o da salotto (che non si sa che vuol dire) che un cementificatore da campagna».
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