Zamir è un bambino senza volto: a sei anni un ordigno esploso in un campo profughi tra Siria e Turchia lo sfigura, gli toglie la gioia del riso e la liberazione del pianto. E lo costringe a una vita da testimonial della pace. Entra nell’ingranaggio della cooperazione internazionale, ne sfrutta scorciatoie e visibilità fino ad approdare alla Fondazione per la Prima pace mondiale. Da quel momento si dedica – con scorciatoie sempre più immorali – a fermare le guerre, impedire che si muoia di conflitto, anche se la pace architettata nulla a che fare con la giustizia.

È il nuovo romanzo dell’autore turco Hakan Günday, Zamir (Marcos y Marcos, pp. 384, euro 20), puzzle di guerre, arroganza del potere, distopia. All’apparenza: l’immaginario di Günday ha le sue radici nella quotidianità globale. Abbiamo intervistato lo scrittore durante il suo tour italiano (oggi alle 19 sarà alla Libreria Arcadia di Rovereto).

Descrive un mondo di conflitto collettivo, individuale, politico. Guerre tra singoli e tra Stati, tra milizie reali e inventate a tavolino. Conflitti di lunga memoria trascinati all’infinito e conflitti nuovi, sociali, che hanno le loro radici nel razzismo di Stato, realtà nei paesi occidentali. E l’unico modo per fermarli è la menzogna. La prospettiva dell’umanità è la vicendevole distruzione perché la pace è innaturale?

È l’idea che nutre il romanzo. Zamir vive in un mondo dove la guerra è chiamata intervento umanitario, dove la distruzione reciproca è chiamata competizione e dove la violenza è solo un altro mezzo di comunicazione. La guerra è naturale come la vita. Dall’altro lato, se vuoi la pace, devi inventarla. È quello che prova a fare Zamir. Perché sa che la pace è un prodotto che va disegnato, realizzato, pubblicizzato e venduto.

Ogni forma assunta dalla pace è slegata dalla giustizia. Pace intesa come assenza di morte ma anche di eguaglianza?

Tutte le situazioni definite pacifiche nel romanzo sono solo «cessate il fuoco» etichettati come pace. Nel mondo in cui Zamir vive le cause economiche, sociologiche, politiche delle guerre non vengono mai davvero risolte. Il suo unico obiettivo è negoziare un cessate il fuoco, ovvero ritardare il conflitto. Sa che gli accordi di pace sono solo temporanei. Per questo è alla ricerca del modo per fermare le guerre per sempre e stabilire una pace permanente.

L’animo di Zamir è l’altro campo di battaglia, combatte se stesso e gli altri in parallelo alle guerre che vuole evitare. Con spirito machiavellico – il fine giustifica i mezzi – non esita a ricorrere alla bugia, all’omicidio, al sotterfugio. E, come altri prima di lui, assorbe il male come fosse assoluto ma allo stesso tempo gli è impossibile sopportarlo. Come definisce la sua ricerca di senso?

Zamir da bambino viene ferito da una bomba. Fin da piccolo è una vittima di guerra. Per questo all’inizio della sua carriera come pacificatore ribolle di idealismo. Ma con il tempo realizza che l’idealismo non funziona e arriva al punto di credere che il fine giustifichi i mezzi. C’è un conflitto che va avanti nella mente di Zamir, per questo cerca anche pace per sé.

Nel romanzo ogni vittima diventa prima o poi carnefice. Chi si salva?

Per uscire dal circolo vizioso è importante iniziare a rifiutare di essere come il proprio carnefice. Ovvero mettere in discussione l’idea della vendetta e della rabbia assoluta dentro di sé. Zamir ha un volto ferito, senza segni di emozione, non può ridere né piangere. La sua anima è paralizzata, come il suo viso. Perché sa che è diventato come chi fa la guerra. E capisce che può uscire dal circolo vizioso dicendo: «So di essere un umano e rifiuto di essere un mostro». Il problema vero però è restare fuori da quel circolo, è quella la battaglia quotidiana.

Emerge anche l’enorme critica al sistema della cooperazione internazionale, invisibile fautore della guerra. Un mostro che si rigenera grazie alla sofferenza, una macchina autoreferenziale che disumanizza le persone invece di riconoscere loro dignità.

Zamir vede la cooperazione internazionale come sintomo della malattia che chiama «male sostenibile». Pensa ci siano connessioni tra chi fa la guerra e chi fa la pace, o tra chi impoverisce le persone e chi le aiuta. Ed è convinto che la tragica situazione del mondo sia il risultato del consenso che giunge dalla comunità internazionale.

Il suo intercedere è un mosaico di storie surreali, distopiche, ma allo stesso tempo assolutamente credibili (dai dildo del generale Dadjo alla cimice dell’invisibilità, dai lager in Germania ai palestinesi che trovano una patria solo sottoterra). L’impossibile è già realtà, lo abbiamo sotto gli occhi?

È impossibile scrivere un romanzo che sia più violento della realtà.