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Wall Street e il cinema americano, una quasi ‘storia d’amore’

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Immaginario   Oliver Stone è stato il primo a dedicare l’intero titolo di un film a Wall Street e il suo Gordon Gekko (nella versione «originale» del 1987 e nel sequel […]

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 27 dicembre 2013

 

Oliver Stone è stato il primo a dedicare l’intero titolo di un film a Wall Street e il suo Gordon Gekko (nella versione «originale» del 1987 e nel sequel di tre anni fa, inutilmente «buonista», Wall Street. Il denaro non dorme mai) rimane tutt’oggi uno dei grandi protagonisti del genere. Ma il mercato delle finanza che ha il suo quartier generale e simbolico nella downtown newyorkese ha offerto ampio spunto al cinema americano, specialmente negli ultimi anni.

Lo ha raccontato filosoficamente – e senza mai uscire da una lussuosa automobile con autista – David Cronenberg, in Cosmopolis. Soderbergh lo ha scelto come soggettp di uno dei suoi film più aperti, improvvisati, ambientato sulllo sfondo del crash dell’autunno 2008, The Girlfriend Experience. Come quello di Scorsese, gli affreschi sul contemporaneo capitalismo di Cronenberg e Soderbergh, sono misteriosi, complicati, inestricabili dal sesso. È più tradizionale – le linee morali tracciate chiaramente, la storia che ha un inizio, un punto di mezzo e una fine – l’approccio di film come Margin Call, il successo di Sundance diretto da J.C. Chandor (All Is Lost), ambientato nell’arco di 24 ore in una banca d’investimento. O La frode, con Richard Gere nei panni del padrone di un hedge fund sull’orlo della rovina che finisce coinvolto in una storiaccia di omicidio. Addirittura letterale, il trattamento di Il crollo dei giganti (Too Big to Fail), il film HBO adattato dall’omonimo best seller del giornalista finanziario Andrew Ross Sorkin, anche lui sul crash del 2008, con William Hurt nel ruolo dell’allora ministro del tesoro Hank Paulson, diretto da Curtis Hanson.

Mentre già nel 2000, operazioni «ai margini»come quella di Jordan Belfort in The Wolf of Wall Street avevano attirato l’attenzione del regista Ben Younger che ne aveva tratto Boiler Room (1 km da Wall Street), uno studio antropologico energetico e interessante, con Giovanni Ribisi e Ben Affleck. Lo stesso anno, con grande inventiva, la regista Mary Herron aveva portato sullo schermo la sublime e mostruosa creazione di Bret Easton Ellis, Patrick Bateman ovvero l’ American Psycho (un titolo che andrebbe benissimo anche per The Wolf of Wall Street). Dieci anni prima, Brian De Palma si era cimentato con un’operazione analogamente difficile, traducendo al cinema un altro dei romanzi classici sull’eccesso degli anni ottanta, Il falò delle vanità di Tom Wolfe. Mentre, nel 1983, Landis aveva affrontato «le banche» in chiave dickensiana – il suo Una poltrona per due con Eddie Murphy e Dan Ayckroyd, era infatti una versione contemporanea di Il principe e il povero. E il regista di Animal House ha nascosto anche dietro al suo ultimo film, Burke and Hare, cupissima parabola sul capitalismo.

Capitalism: A Love Story, è il titolo che si spiega da sé del film di Michael Moore realizzato nel 2009. Ma, tra i documentari, i due prodotti più agghiaccianti sugli orrori perpetrati ai vertici della finanza USA (non quella fuori porta dei Jordan Belfort, ma quella blue chip, alla Goldman Sachs) rimangono Inside Job, di Charles Ferguson e Enron: l’economia della truffa, di Alex Gibney.

La Grande Depressione diede materiale magnifico alla Hollywood anni ’30. Per citare solo un paio dei titoli migliori e più sovversivi: American MadnessLa follia della metropoli di Capra, Skyscraper Soul di Edgar Selwyn, entrambi del 1932, e Employees Entrance diretto l’anno successive da Roy del Ruth.

 

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