ival bolognese, diventato uno dei più necessari appuntamenti cinematografici internazionali, fa bene a ricordarci che del cinema tutti, studiosi compresi, sappiamo ancora pochissimo. Colui che era stato per anni il suo direttore, il compianto Peter von Bagh, fu lo storico del cinema che aveva visto più film ma sapendo di doverne scoprire molti di più. Dopo la sua scomparsa Il Cinema Ritrovato ha ulteriormente ampliato i programmi, con più sale che proiettano film in contemporanea, il che costringe ciascun visitatore a scelte con sacrifici, ma non si tratta di gigantismo bensì di un segno consapevole della distanza ancora infinita tra il tempo di vita di ogni spettatore e l’universo di immagini con cui vale la pena di incontrarsi.

Ogni anno il programma sembra più esteso, e bisogna evitare i due tranelli apparentemente opposti, quello di seguire solo i fili di cui già si sa qualcosa concedendosi troppe iterazioni di piacere nel rivedere certi film, ma anche quello di cercare solo le rarità. Personalmente non potrò rinunciare a rivedere le copie 35mm d’epoca di capolavori affascinanti come Deliverance (Un tranquillo weekend di paura) di John Boorman e Phase IV di Saul Bass, e naturalmente di vedere per la prima volta in copie 70mm (restaurate con la collaborazione di Martin Scorsese) i sommi The Searchers (Sentieri selvaggi) di John Ford e North by Northwest (Intrigo internazionale) di Alfred Hitchcock.

Né certe copie uniche a colori di formati a passo ridotto. Ma nemmeno rinuncerò ai sette film rarissimi, austriaci e tedesco-occidentali, della rassegna «Dark Heimat» curata da Olaf Möller. Né ai due film iraniani del periodo prekhomeinista, di Amir Naderi e Marva Nabili, che trovano nel documentario di Ehsan Khoshbakht, ottimo curatore di rassegne bolognesi e ora anche locarnesi, un testimone vivente, e che ci confermeranno in quel momento del cinema iraniano la sua massima punta. Su alcune rassegne dovrò fare solo assaggi, come in quella geograficamente planetaria curata da Cecilia Cenciarelli dal titolo «Cinemalibero».

O come nella personale del giapponese Kozaburo Yoshimura, nei cui film tornano le attrici mizoguchiane Kinuyo Tanaka e Machiko Kyo. E non (ri)vedrò tutti, come vorrei, i film di due grandi icone, Marlene Dietrich e Delphine Seyrig, splendido abbinamento che fa incontrare due presenze in cui si riassume tutta la molteplicità del femminile. Né rivedrò tutti gli affascinanti Jacques Demy, anche indiretto omaggio alla appena scomparsa Anouk Aimée che qualche anno fa con Lola fu icona del festival. Ma non mi perderò il film ceco con una prehitchcockiana Anny Ondra, né quello di Monta Bell con la rara apparizione di Jeanne Eagels che sarà reimpersonata da un’altra ceca hitchcockiana, Kim Novak.

E assaggerò almeno qualche frammento di film ritrovati con corpi musicali: dopo l’Enrico Caruso proiettato nei programmi prefestival, ecco Duke Ellington, la danzatrice Tatiana Pavlova, le cantanti jazz e i divi degli Scopitones. Corpi e luoghi, come ha riassunto magnificamente Michele Mancini la natura del cinema. Percorriamo ora in breve alcuni segmenti del festival emblematici della sua molteplicità di sguardo.

Svezia Inferno e Paradiso
Nel ringraziare l’eretico Luigi Scattini per il nostro titoletto, la rassegna di Gustaf Molander ci farà scoprire l’autore più esemplare di quel ponte generazionale tra l’epoca d’oro dei capolavori muti di Sjöström e Stiller (presenti con tre capolavori) e quella di Ingmar Bergman che per Molander scrisse tre sceneggiature giovanili mentre vi appare talvolta lo Sjöström ormai attore. Molander ha diretto quasi tutti i film svedesi di Ingrid Bergman, anche se rispetto a essi (compresi i due che ebbero remake americani) ci colpisce di più l’ultimo, diretto da una figura da riscoprire come Per Lindberg.

Ma le costruzioni un po’ troppo «sceneggiate» di Molander sembrano sciogliersi nel dopoguerra, con presenze di attrici condivise con Ingmar Bergman o anche con Sjöberg e Sjöman. E l’ultimo film di Molander, nel 1967, l’episodio per Stimulantia che segna il ritorno in Svezia di Ingrid Bergman, è un davvero commovente epilogo dei loro incontri. Nella storia del cinema svedese che va oltre le generazioni c’è inoltre il fuoricampo del danese di madre svedese Dreyer, nel cui capolavoro segreto Due esseri, prodotto da Sjöström, tornano attori di Molander.

E questi diresse anche la prima versione di Ordet, nel 1943 quando il pastore Kaj Munk, autore del testo poi martire danese degli occupanti nazisti, era ancora in vita, e colpisce come Molander si confronti con l’impossibilità del miracolo, il quale nella versione di Dreyer diventa necessità del cinema. C’è inoltre il doppio di un fratello regista, Olof Molander, anch’egli da riscoprire. Gustaf Molander ha un’opera molto estesa e forse datata ma piena di fughe tangenziali che si disseminano in altri cineasti.

Russia e Urss
Da anni Bologna percorre la sterminata storia di una cinematografia non certo inferiore per ricchezza e grandezza a quella americana. Nemmeno per fascino: un tempo i film russi ci davano una sensazione di rigidezza rispetto agli americani ma oggi è chiaro che l’ideologia non ha mai vinto la libertà del cinema, come nemmeno quella della musica e della letteratura di quel paese plurale rispetto a cui la Russia odierna appare una ripetizione in farsa. Vedremo a Bologna sia un capolavoro del più libero dei cineasti, Boris Barnet, presentato dal massimo conoscitore Bernard Eisenschitz che gli dedica un libro-summa, sia film di mediazione con lo spettacolo popolare come Dvorec i krepost ‘ di Aleksandr Ivanovskij e Chemi bebia di Kote Mikaberidze, col filo conduttore di una magnifica personale del proibito Sergej Paradjanov.

Possiamo considerare un’estensione americana di questa sezione la bella personale (che lo scomparso frequentatore del festival Pierre Rissient fortemente voleva) di Anatole Litvak, che come molti esuli dalle terre zariste portò nel cinema americano dei rigogli di forme: sommamente mi sembra valga per Val Lewton, con evidente sottolineatura per Rouben Mamoulian, con delle emersioni più discontinue in Litvak, e in modo più rigido in Lewis Milestone.

Pietro Germi eterno inattuale
Nella serie di retrospettive di registi italiani proposte da Emiliano Morreale, questa di Germi offre molti film da riscoprire ma omette alcuni solo apparentemente minori, come la sua versione di Gelosia da Capuana, degnamente diversa da quella di Poggioli, cui sembra unirlo un cinema di accennate confessioni, e perciò sorprende anche l’omissione del grande esordio con Il testimone che ci sembra il massimo capolavoro del regista insieme con L’immorale: il film del 1946 e quello del 1967 costituiscono il dittico più intimo dell’autore, opere vulnerabili e appassionate. I tre film menzionati ci sembrano la chiave migliore per entrare nell’opera di Germi, per non confonderla con mimetismi di genere western o poliziesco, e poi con racconti di costume. Mancano nel programma anche i tre film finali, quando non solo Goffredo Fofi liquidava Germi, anche perché iscritto al PSDI, come un conservatore di dubbia intelligenza. Ormai è chiaro che il cinema che ci ha lasciato era più intelligente di «noi», come ben intuì Adriano Aprà.

Il Cinema Ritrovato ci aveva già presentato Deep Throat (Gola profonda), restaurato digitalmente dagli eredi di Damiano che quest’anno fanno rivivere il successivo Devil in Miss Jones. Si tratta dei due film che meglio evidenziano l’irruzione dell’hardcore nel cinema anni 70, non di un «corpo estraneo» come alcuni ritennero ma del rivelatore di qualcosa di quintessenziale al cinema, il suo farsi incarnare da corpi vivi. Qui la protagonista è Georgina Spelvin, ex danzatrice che si abbandona totalmente, e non solo nelle azioni porno; un’interprertazione da Oscar se questo avesse capito il senso del cinema.