Il mio primo Rossellini è stato Viaggio in Italia. Avevo quattordici anni e leggendo già molto di cinema per me era un film leggendario; aveva avuto parecchie vite e tanti registi della Nouvelle Vague che amavo lo avevamo eletto come titolo di riferimento. Sono rimasto estremamente colpito: quasi tutti, infatti, parlandone ne avevano sottolineato l’aspetto politico, a me Viaggio in Italia era sembrato una storia d’amore, il racconto di una frattura all’interno di una coppia nel profondo sud italiano. Solo col tempo ho capito cosa è un film «politico», una definizione cioè che non riguarda il «contenuto» ma il linguaggio, il modo in cui il suo autore inventa un mondo – che non si limita alla sola scrittura della sceneggiatura. È stata una lezione che si è sigillata nella mia mente.

AVEVO vissuto la stessa epifania, anche se in maniera più inconsapevole, qualche tempo prima durante la visione di Piso Pisello di Peter Del Monte; avrò avuto una decina di anni, mi piaceva molto andare al cinema, ero uno spettatore sporadico e precoce. La storia del ragazzino che diventa padre giovanissimo mi aveva provocato una grande inquietudine. Qualche anno dopo, con Piccoli fuochi, ho provato la stessa sensazione. Andai a vederlo quattro o cinque volte, ricordo la sala strapiena del cinema a Palermo, il giorno della prima . Era un film magico, pieno di desiderio, la relazione tra il bimbo e la giovane donna, una favolosa Valeria Golino, era conturbante.
Che cosa mi impressionava tanto in quelle immagini? Ci ho pensato a lungo e piano piano mentre cresceva la mia consapevolezza sul cinema, sono riuscito a capirlo: la mia attrazione dipendeva dal modo in cui combinavano l’elemento fantastico col reale. E qui torniamo a Rossellini: un film come La paura mette in moto lo stesso dispositivo, basta pensare al momento in cui il personaggio di Ingrid Bergman smaschera la trappola in cui è stata attirata dal marito tradito. Sia La paura che Piccoli fuochi però non sono film che parlano del mondo e della realtà; piuttosto ne riflettono i turbamenti e le inquietudini attraverso i loro protagonisti, la donna per Rossellini, il bambino per Del Monte. Nel sentimento irrazionale di un individuo entrambi riescono a mettere in scena una situazione di crisi collettiva.

NON AVREI mai capito come far parlare il mio lavoro da regista senza il cinema di questi due autori. E non si tratta semplicemente di stile, le loro sono voci naturali, che sgorgano dal profondo.
Dopo Viaggio in Italia è cominciata la mia «formazione» rosselliniana: fino a vent’anni ho visto tutti i film di Rossellini, prima quelli con Ingrid Bergman, Europa 51, Stromboli, poi Germania anno zero e così via. In quel periodo ho conosciuto Franco Maresco, aveva una cineteca preziosa in una città come Palermo dove era più difficile avere accesso a tante cose, così stavo sempre da lui.
Ricordo che mi rimproverava, ripeteva di continuo: «Non hai visto niente!». È stato grazie a Franco se ho scoperto Renoir, e che il binomio tra lui e Rossellini è imprescindibile.
Quando ho ricevuto la proposta di questa «Carta Bianca», mi è venuto istintivo associare Rossellini e Del Monte, soprattutto in uno spazio – quale è appunto una «Carta Bianca» – privo di confini. Ho molta nostalgia per quel tipo di cinema, e sono assolutamente convinto che Del Monte sia l’ultimo rosselliniano, sia l’uno che l’altro poi sono due voci eretiche nel cinema italiano.
C’è una simmetria evidente tra i loro film, La paura e Piccoli fuochi, Europa 51 e Piso Pisello, Compagna di viaggio non esisterebbe senza Viaggio in Italia.

Far risuonare queste affinità permette anche di spogliare Rossellini dell’aura di “pietra miliare del cinema” in cui è stato rinchiuso, col rischio di fossilizzarlo, per ritrovarne il gesto sovversivo. È come se accostandolo all’opera di un regista che è venuto dopo sia possibile restituirgli una nuova vitalità, l’urgenza e la sostanza che è doveroso riconoscergli. Rinnovare continuamente la fonte primigenia del cinema è molto importante; con questa «Carta Bianca» mi piaceva l’idea di restituire – o almeno di provarci – una verginità alle immagini che pensiamo ormai di conoscere per trasformare la loro visione quasi in uno shock.