Il cinema di Hintermann, golem e immanenza
Intervista Il regista di «The Book of Vision» parla del suo lavoro e del suo impegno per un cinema della «fragilità»
Intervista Il regista di «The Book of Vision» parla del suo lavoro e del suo impegno per un cinema della «fragilità»
Carlo S. Hintermann – figlio d’arte, produttore, regista, esperto del suono e musicista – dopo esperienze cinematografiche numerose e molto diverse tra loro, arriva al suo primo lungometraggio a soggetto, The Book of Vision, un rischioso e inusitato racconto filosofico presentato prima a Venezia 77, come film d’apertura fuori concorso della SIC, e nei prossimi giorni anche nel concorso internazionale del Festival di Varsavia e nella selezione internazionale del Festival di Istanbul. Al centro il racconto sospeso, materialistico ma trascendente, realistico ma antinaturalistico che congiunge nel corpo di una donna il Settecento dilaniato tra il razionalismo dei lumi, l’alba delle nuove scienze e le radici profonde delle tradizioni arcaiche, e il nostro presente, livido, netto e incerto, che sotto la superficie lucida delle nuove fedi logocentriche nasconde le medesime oscure putritudini e le accecanti illuminazioni del passato mai passato.
Del generoso lungo scambio con Hintermann che ci ha parlato del suo cinema attraversando i fumetti, i videogiochi, la filosofia contemporanea, la tragedia greca, leggete di seguito solo un laconico estratto. In esso si ritrova condensato l’eclettismo temerario di uno spettatore erudito prima ancora che di un appassionato artigiano, perenne apprendista, costruttore di mondi, combinatore d’idee.
Il tuo primo lungometraggio a soggetto ha un congegno produttivo ingombrante e complesso. Quali sono state le stelle polari, le cose che di questo film ti hanno tenuto sulla strada?
Ho sempre lavorato su progetti molto articolati, anche dal punto di vista produttivo. Non c’è una grande differenza con i documentari. La stella polare è sempre cercare collaboratori con i quali si condivide un sentire, e lottare per fare il cinema come lavoro, come sforzo collettivo. Ho sempre vissuto l’esperienza del set come ecosistema costruito apposta per permettere l’insorgenza di qualcosa d’inatteso. Questo è un approccio derivato dal documentario, almeno nel mio caso. Credo molto nella costruzione di un mondo, quasi di una lingua che sia autonoma.
Cerco di godermi la soddisfazione di vivere la relazione straordinaria che è nel costruire qualcosa insieme agli altri, in ogni fase del film. Non sento mai la frustrazione, proprio perché mi sembra di costruire una contro-società: quasi un gruppo di cospiratori che cercano di inoculare nel mondo qualcosa. Facciamo il nostro lavoro come se fossimo dei medium.
Rispetto al tuo modo d’intendere e di fare il cinema, di concepire e di applicarsi alla tecnica, mi fai pensare a Rossellini. I paragoni credo siano sempre inopportuni, ma qui si tratta di un vero e proprio nume tutelare.
Certo. Secondo me Rossellini è l’esempio incarnato del fatto che il cinema pensa e il cinema parla, una cosa che diceva Edoardo Bruno. Per far respirare il cinema ci si basa sulla tecnica. Piegare la tecnica al servizio di questa libertà è un esercizio straordinario e Rossellini ne è uno dei vertici.
Sono molto legato a Rossellini anche perché in Europa 51 recita mio padre: è stata sempre una presenza quasi domestica. I miei nonni erano di Civitavecchia ed erano amici della famiglia di Rossellini, da quando stavano a Santa Marinella. Mio nonno gestiva una farmacia a Civitavecchia, diventarono amici.
Domanda inevitabile: com’è che Terrence Malick entra nella vicenda produttiva del tuo film?
La relazione con Terrence Malick è iniziata quando ho fatto un documentario su di lui (Rosy-fingered Dawn – Un film su Terrence Malick, 2002, ndr): quello che m’interessava era l’universo di relazioni che Malick aveva creato. La sua relazione con gli altri registi è una storia a parte: Andrew Dominick, Jeff Nichols, Iggy Edwards, tutti autori che hanno iniziato lavorando come suoi assistenti e per i quali lui ha lavorato come produttore. Per me è stato naturale procedere sulla stessa linea. È affascinante quanto il suo atteggiamento sia lo stesso che a suo tempo ebbe Arthur Penn nei suoi confronti. Ecco lui è stato una stella polare, è sempre stato vicino al progetto dando quell’entusiasmo di cui c’era bisogno per avere una tenuta nel tempo. Credo molto in quello che diceva Buñuel: nello scrivere un film quel che fai in realtà è gettare un sasso più lontano possibile. Ecco, Malick ti spinge sempre a raggiungere quella prima pietra lanciata.
Venendo al film, la prima domanda potrebbe riguardare l’esergo, Bufalino.
La scrittura di Bufalino è cinema e il cinema in Bufalino è tutto: il suo apprendistato, oltre la lettura matta e disperatissima di tutto quello che aveva alla portata, viene tutto dal cinema. Per un siciliano cresciuto in un luogo remoto in cui arrivava pochissimo, il cinema era la porta d’ingresso al mondo. In Bufalino amo il lavoro sugli apici di senso: non c’è mai il raccordo, c’è sempre l’assoluto dell’immanenza di quello che succede in quel momento. Bufalino dice: «ho un rapporto vizioso col tempo, per me il passato è sempre mio contemporaneo». Questo rapporto vizioso è lo stesso che ho io col tempo: per me ripercorrere un’epoca non è mai una rievocazione ma sempre sentire quel momento come contemporaneo. La citazione in italiano è «Ri-essere, that is the question»: secondo me la questione non è essere o non essere, ma riessere in ogni momento. In ogni istante il film dovrebbe essere un inno all’immanenza. Vorrei che all’ingresso delle sale ci fossero gli appendiabiti e gli «appendi-Io»: che ci fosse la possibilità di abbandonare se stessi fuori della sala. Per questo ho cercato di costruire il film come se ogni scena avesse in sé un valore, lasciando una sorta di abisso nello spazio che sta tra una scena e l’altra – quella che una volta era la giunta di montaggio – che per certi versi nasconde un mistero. Un mistero inevitabile che ogni spettatore risolve come vuole.
Qual’è l’origine prima del film?
L’idea nasce dal libro di Barbara Duden che si chiama Il corpo della donna come luogo pubblico, un libro affascinante su come si sia creato il discorso intorno al corpo della donna in modo che diventasse un argomento sul quale chiunque potesse esprimere la sua opinione. Per dimostrare che un tempo non era così e che il corpo della donna è diventato una costruzione sociale nella società contemporanea va a ritroso fino a ritrovare le vicende di un medico del Settecento che dedicava il suo mestiere alla cura delle malattie femminili e della relazione tra il medico e i suoi pazienti, e a come i pazienti percepivano il corpo. Lo spunto è nato da un medico realmente esistito. Lì poi si è innestata l’idea di ragionare sul corpo e di farlo con un gioco di specchi tra due epoche, prendendo come prisma un’epoca in cui c’è stato il momento di transizione tra la medicina antica e quella moderna, e anche l’origine dello stato moderno. Un’epoca in cui tra l’altro le nuove spinte razionalistiche e una dimensione animistica popolare potevano quasi darsi la mano ma poi non se la sono data.
Torna inevitabilmente Rossellini. Parlavi dell’immanenza, ma in questo film mi pare ci sia anche una forte presenza di un oltre e mi torna in mente il materialismo spirituale di Rossellini.
Certamente sì. Si tratta di ricomporre quella dualità che a un certo punto ha vissuto una frattura. La mia intenzione era di ricomporre questa frattura: la chiave è proprio il divenire. Più che alla reincarnazione, credo nelle tracce, nello sciogliersi nel divenire. Sono molto legato alla cultura ebraica, e una cosa molto bella della cultura ebraica è che c’è una costante lotta per allontanare l’Io. Questo esercizio raggiunge una sorta d’immortalità immanente. Sembra un paradosso ma non lo è: muore l’essere individuato, muore l’individuo. Dandoci un nome ci condanniamo alla morte. Quando ce ne priviamo, è un dato di fatto che siamo immortali.
Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma?
Esatto. Si trattava di riconquistare quella dimensione. Verso la fine del film si dice che nell’uomo c’è qualcosa che può essere invidiato anche dagli angeli ed è avere la testa tra le nuvole e i piedi piantati per terra: di questo si tratta, siamo la ricomposizione incarnata di questo dualismo. Questo ci riporta certamente a Rossellini, ma forse anche al cinema in generale. Penso a Histoire de Marie et Julien di Rivette, uno straordinario film di fantasmi in cui il fantasma diventa carne. In fondo è quello che fa il cinema.
Il libro della visione. Visione di che cosa?
Vedere con tutti gli occhi, diceva Rilke. La visione come dimensione assoluta. Ho sempre visto il cinema come un’esperienza assolutizzante. Non è tanto la visione di un oltre, è proprio nella visione che c’è l’esistere.
C’è una che di apocalittico, nel senso proprio del punto in cui tutto si rivela?
Sì. È un po’ lo strappo di un velo. La visione che assume il carattere assoluto quando la separiamo dal sé. è riuscire a vedere la corsa dell’immanenza. Ho sempre immaginato che l’esistenza di una pietra sia degna tanto quanto quella di un uomo. La visione è proprio questo vedersi, riconoscersi gettati piuttosto che soggettati, come scrive il filosofo Felice Cimatti. Questo è molto affascinante e il cinema lo mette davvero in movimento.
C’è la necessità di riconquistare un approccio di visione pura, ritornare a sentire la sacralità della visione, della sala cinematografica. È curioso che il cinema abbia perso quella centralità provocatoria, sconcertante, di vertigine. S’è spostata in altri settori, fino a poi a ritornare all’interno del cinema. Per esempio per me Avangers – Endgame è un film che non ci sarebbe potuto essere alcuni anni fa, con questa proliferazione di decine e decine di personaggi, è un’esperienza totalizzante. Un altro esempio di quanto ci sforziamo di ridurre il cinema a qualcosa di molto piccolo e digeribile e quanto invece l’esperienza della visione inglobi tantissimo.
A questo punto mi sento in obbligo di chiederti un più diretto affondo sui tuoi riferimenti provenienti dal cinema di genere e commerciale degli anni Ottanta – ai quali hai esplicitamente fatto riferimento presentando il tuo film – e su altro fronte, i riferimenti derivati dalla cultura tradizionalmente intesa, per dir così più dotti.
Tutti i registi che hanno inventato una propria lingua come ha fatto Joyce – quindi Godard, Kitano, Iosseliani – erano aperti e in dialogo con il cinema americano, per esempio. Alcuni ottenimenti degli sperimentatori maggiori li vedi realizzati nel cinema considerato main stream: in Avatar ci trovi Malick, in Tarantino ci trovi Godard. Per me nel film fantasy anni Ottanta l’elemento più importante è di avere cose che accadono davanti la macchina da presa, l’effetto speciale in presenza. Una dimensione bellissima che ho cercato di ricreare all’interno del mio film.
L’elemento di artigianalità è stata la scintilla che ha acceso il mio amore nei confronti del cinema. Irvin Keshner per me è stata una persona davvero importante: vide casualmente un mio documentario al festival ebraico di Varsavia e iniziammo il nostro rapporto. Da lui mi sono venuti racconti meravigliosi su Guerre stellari, su quanto fosse difficile all’inizio accettare che in L’impero colpisce ancora un pupazzo verde – Yoda – fosse uno dei protagonisti. Noi queste sfide le vediamo come cose assodate, in realtà è la sfida del cinema di cadere dentro la vertigine. La vertigine dell’assoluta novità di vedere qualcosa che non è esistito prima. C’è una magia nel pupazzo che prende vita, il golem è un archetipo: è quello che è successo con Yoda, è quello che succede con la creazione. Per me il fantasy anni 80 è dare vita al Golem.
Rispondendo anche all’altra parte della tua domanda: c’è per me un dialogo ininterrotto tra l’alto e il basso, il vecchio e il nuovo; Il buon soldato Sc’vèik è Forrest Gump, Il Golem è E.T. Le anime morte di Gogol per me è un fantasy. Non so quand’è che si è perso questo dialogo. I musical americani erano Mejercold, incarnato e accessibile. West Side Story è un film di robot.
L’artista non ha nessun Io da difendere, ma non tutti hanno la responsabilità di accettarlo. Per me se fai cinema devi essere come Woyzeck, «un rasoio che attraversa il mondo». È ovvio che è un volo pindarico, ti puoi fare male. L’esperienza spettatoriale degenerata è quella che vuole vedere sempre la stessa cosa. In questo ha ragione Winttgenstein che dice che c’è una malattia filosofica che consiste nel dover fare sempre e solo un paragone. Il cinema, andando nella direzione dell’anti-umano, ha perso la capacità di riconoscersi nella fragilità. Io mi auguro una platea di spettatori fragili. Ci riconosciamo per la fragilità che ci accomuna.
So che sei anche musicista e un cultore del suono in sé. Questo film – anche per il suo essere film sul Tempo – è un film musicale a molti diversi livelli.
Oltre a Bufalino, due altre persone straordinarie hanno detto «To be again. This is the question»: Brahms e List. Per entrambi questi due straordinari compositori significa essere radicati nella musica classica e d’altra parte essere gli inventori dell’armonia moderna che trovi nei Beatles o nei Beach Boys. Brahms nelle sue lettere diceva «l’importante non è fare ma rifare». Rifare e essere di nuovo sono due principi eccezionali. Ecco allora, quella musicalità è quella che mi ha guidato all’interno del film: da subito ho voluto un registro completamente opposto a quello della musica settecentesca. Ho usato i fiati e i sassofoni come strumento portante, registrati da vicino, per farli sentire materici, presenti; dall’altra parte mi sono affidato a soluzioni armoniche. Questa arcata musicale, questo fluire, è simile a quanto avvenuto nell’architettura del barocco, in cui la spirale sostituisce il cerchio e l’ornamento è parte della struttura: levi l’ornamento e crolla il palazzo.
Poi quando si crea collettivamente, la cosa fondamentale è l’ascolto dell’altro. Per questo sono amante di tutti i direttori d’orchestra che l’hanno fatta suonare come un organismo. Per esempio Carlos Kleiber, che è il mio preferito, non cercava virtuosi nell’orchestra cercava persone, e in ognuno riconosceva il colore che apportava al gruppo. Alla fine l’orchestra era un organismo vivente, non l’insieme di quaranta virtuosi. Questa è un’altra cosa che la musica insegna e che è mutuabile nel lavoro collettivo del cinema.
È stata una piacevole seduta psicanalitica. Viviamo sempre chiusi con il lato esasperante di questo mestiere, ma per me questo è il piacere di parlare di cinema.
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