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Il cinema d’autore francese in assemblea contro la crisi

Il cinema d’autore francese in assemblea contro la crisiDavanti a una sala francese anni fa

Stati generali Registe, registi, produttori, produttrici, lavoratrici, lavoratori si sono riuniti a discutere guardando all’esperienza del 1968. Dallo streaming alla nuova politica liberista del Cnc, le opinioni sulle cause sono apparse diverse. Con la consapevolezza tra alcuni che il sistema nazionale non funzionava più già prima di Netflix e di Macron

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 11 ottobre 2022

Il 6 ottobre scorso è andata in scena a Parigi un’assemblea che ha riunito un gran numero di personalità e di lavoratori del mondo del cinema d’autore. È stata un’occasione per fare il punto sulla crisi in cui versa il settore e per riflettere su una riforma complessiva. Il titolo della manifestazione era: «Appello per gli Stati generali del cinema francese». Ma che cosa sono gli «Stati generali del cinema»?

I PRIMI si riunirono tra il 17 maggio e il 5 giugno del 1968, nella rue Vaugirard a Parigi. All’inizio si trattava di un’assemblea di tecnici e di alcuni studenti della Scuola nazionale di studi cinematografici, ai quali si erano aggiunti dalla prima ora alcuni critici dei «Cahiers du cinéma», via via raggiunti da molti dei protagonisti della Nouvelle Vague. L’idea condivisa da tutti allora era di dare la spallata finale al Centro nazionale della cinematografia (Cnc). Le proposte sul che fare in seguito divergevano invece notevolmente, tanto che alla fine furono presentati 19 progetti distinti per una nuova legislazione sul cinema. Quello più cinefilo, portato tra gli altri da Claude Chabrol e Marin Karmitz, aveva come idea centrale la gratuità del biglietto. Una parte di quelle riflessioni rifluirono nella grande riforma ideata dal ministro della cultura Jack Lang nel 1986. Che, in qualità di direttore dell’Istituto del mondo arabo, è stato l’ospite d’onore dell’assemblea del 6 ottobre e il primo ad intervenire. Che cosa si è detto?
Quasi tutti gli oratori erano d’accordo su un dato di fatto, del resto incontrovertibile: il modello francese non funziona più. Nelle decine di interventi che si sono avvicendati sul palco, l’autoesame della professione è apparso più che fosco. Il pubblico è sempre meno presente in sala. L’affluenza è calata del 30% rispetto al 2021. L’intera industria, colpita dalla pandemia è stata aiutata dal governo ma ora fatica a riorganizzarsi.

SULLE CAUSE della crisi, c’è meno unità di vedute. Quasi tutti gli interventi puntavano il dito alla nuova direzione del Centro nazionale della cinematografia. Il produttore Said Ben Said, presente all’assemblea, ha espresso un’opinione diffusa confidando, in un’intervista con Jean-Michel Frodon, che sull’industria del cinema d’autore, nella sua pur grande diversità, pesa «una minaccia comune» rappresentata «dalla trasformazione del Cnc volta a distruggere l’azione pubblica e rinnegare i principi fondatori di questo organismo». Per essere più chiari la nuova direzione del Cnc, nominata da Macron nel 2019, punta a farne uno strumento che, invece di contrastare le tendenze del libero mercato, le accompagna, le anticipa, le accentua – come recita un rapporto che il direttore del Cnc, Dominique Boutonnat, ha consegnato al ministero della cultura due anni fa. Non è il solo Ben Said a biasimare Boutonnat (da poco riconfermato) che del resto ha sin dal principio suscitato varie inquietudini. Quasi tutti dal palco gli hanno fatto eco.

L’altro nemico dell’assemblea sono le piattaforme dello streaming. In effetti, i nuovi soggetti della produzione e della distribuzione entrano come un cuneo nel sistema francese di sostegno alla creazione, scardinandone da un lato il meccanismo di mutualizzazione degli introiti (basato sugli incassi al botteghino) e dall’altro il meccanismo di ripartizione dello spazio (le televisioni sono obbligate a investire nella produzione nazionale), imponendo infine un modo di produzione unicamente votato al profitto.

D’altro lato, alcuni hanno fatto notare che quest’analisi manca di prospettiva, guarda con nostalgia ai fasti di un modello che era già in difficoltà prima che Netflix e Macron ne accelerassero l’agonia. Già nel 2008, un collettivo coordinato dalla regista Pascale Ferran pubblicò un libro bianco dal titolo: Le milieu n’est plus un pont mais une faille (Il «cinema di mezzo» non è più un ponte ma un abisso). Il concetto di «cinema di mezzo» è simile a quello di cinema d’autore, indica quel comparto dell’industria che è ad egual distanza (sia economica che estetica) tra il cinema commerciale e il cinema indipendente o sperimentale. Questo modello non era solo una sintesi tra l’arte e il commercio, era anche un «ponte», nella misura in cui permetteva un passaggio di talenti tra i due estremi.

QUINDICI anni fa, il problema poteva forse essere affrontato. Oggi, il cinema d’autore non ha praticamente più un pubblico. Senza ombra d’ironia, la regista Axelle Ropert ha argomentato che tra le ragioni della crisi c’è l’ignoranza degli spettatori in fatto di arte cinematografica, ricordando involontariamente il celebre «pubblico di merda!» urlato da Michele Apicella/ Nanni Moretti in Sogni d’oro.
Quella del pubblico è di fatto la questione principale. Intorno ad essa è in atto da anni un dibattito tra sordi. Da un lato c’è chi, come il governo e il nuovo Cnc afferma che bisogna aiutare solo dei film che piacciono al pubblico. Ammesso che sia una buona idea, come si fa, a priori, a stabilire cosa vuole il pubblico? Dall’altro lato c’è chi, in nome della libertà creativa, difende un sistema di sostegno del cinema che, accanto a qualche pepita, produce troppa mediocrità. In una salutare reazione al 6 ottobre pubblicata sui social network, l’addetto stampa Jean Charles Canu ha criticato la ristrettezza di questo dibattito che, contrariamente al precedente del 1968, non riesce ad inscriversi dentro un movimento politico più ampio e sembra rinchiudersi nel proprio interesse corporativo.

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