Visioni

Il cinema da sogno di Werner Herzog

Il cinema da sogno di Werner HerzogUna scena da «Nomad: In the Footsteps of Bruce Chatwin» di Werner Herzog

Cinema Con «Nomad: In the Footsteps of Bruce Chatwin» apre oggi la nuova edizione del festival milanese Filmmaker

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 15 novembre 2019

Con Nomad: In the Footsteps of Bruce Chatwin di Werner Herzog, si apre stasera a Milano il festival internazionale Filmmaker (15-24 novembre) che quest’anno propone un programma incentrato sulle relazioni ma anche sull’idea che filmare con strumenti leggeri, dal super8 all’i-phone, è «un modo per sincronizzare la velocità (o la lentezza) del passo con quella del pensiero. Dell’osservazione con la rappresentazione». Ed è proprio su questi due assi, l’amicizia e il viaggio, che ruota l’ultima fatica di Herzog, regista che oggi sembra riduttivo qualificare «tedesco» nonostante lo spiccato accento teutonico, ormai un marchio di fabbrica, che puntella le sue narrazioni documentarie. Da quando Lotte Eisner definì l’esordio di Herzog Segni di vita (1969) un «vero film tedesco» e ammirata riferì a Fritz Lang, di cui era stata assistente: «ho visto il lavoro di un giovane tedesco, cineasta eccezionale», Herzog ha viaggiato per i quattro angoli del mondo, ha esplorato, visto e raccontato cose. Talvolta l’ha fatto piedi: nell’inverno del 1974, camminò da Monaco a Parigi per raggiungere proprio Lotte Eisner morente, convinto che recarsi da lei a piedi l’avrebbe salvata. Dopo il suo arrivo, lei visse ancora altri nove anni: una straordinaria storia di devozione al cinema e al camminare che il regista ha ripercorso nel suo libro Sentieri nel ghiaccio.

Il regista Werner Herzog

LA FEDE nel camminare accomunava Herzog e Bruce Chatwin che nel libro Che ci faccio qui? definì l’amico cineasta: «l’unica persona con la quale potessi avere una conversazione da pari a pari su quello che chiamerei l’aspetto sacrale del camminare. Lui e io abbiamo in comune la convinzione che camminare non è semplicemente terapeutico per l’individuo ma è un’attività poetica che può guarire il mondo dei suoi mali». Sono passati trent’anni da quando lo scrittore, esploratore e archeologo britannico di nascita ma nomade per vocazione se n’è andato. A lui e all’amicizia che li legava, Herzog ha consacrato un documentario pieno di affetto che nel tracciare le coordinate del loro rapporto ripercorre anche le tappe del suo stesso cinema da Segni di vita (1969) a Lo and Behold – Internet: il futuro è oggi (2016), che viene in mente quando di Bruce Chatwin dice: «era Internet prima di Internet, pochi come lui sapevano trovare le connessioni più segrete tra Paesi, popoli, culture».
Nomad è un ritratto di Chatwin attraverso alcuni luoghi topici della sua vita, dalla Patagonia, all’Australia, all’Africa occidentale fino al Galles, luogo del cuore a cui tornava sempre tra una spedizione e l’altra, approdo famigliare per un viaggiatore sempre alla ricerca dell’estraneo e dello strano.

IN CONTROLUCE, però, il film è anche un’autobiografia del nomadismo di Herzog stesso che il quale più volte si trovò a collaborare con lo scrittore, che prima ancora di conoscerlo ne amava già il cinema tutto infuso di avventura e mistero. Chatwin scrisse che, durante un viaggio del 1971 nel Dahomey, tanto misteriosa gli sembrò la mentalità dei personaggi incontrati che solo un film l’avrebbe potuta raccontare: «Mi ricordo di aver detto: ‘Se mai questo libro dovesse diventare un film, solo Herzog potrebbe realizzarlo’. Ma non era che un sogno. Il romanzo, Il viceré di Ouidah, apparve nel 1980, tra le perplessità dei recensori, alcuni dei quali trovarono insopportabili le scene di crudeltà e la prosa barocca del libro» (così si legge in Che ci faccio qui?). L’incontro vero e proprio tra i due avviene però solo tre anni dopo in Australia: il regista cercò lo scrittore perché voleva chiedergli di collaborare alla sceneggiatura di Dove sognano le formiche verdi (1984) e fra i due nasce subito una grande complicità. Chatwin gli regala una copia del Viceré, Herzog lo apprezza e gli promette che un giorno ne avrebbero fatto un film insieme. Ma il progetto si concretizza solo quando Herzog scopre che David Bowie voleva acquistarne i diritti cinematografici. Fa di tutto per scongiurarlo, mette in moto la macchina della produzione, allestisce un set faraonico in Ghana, chiama il diabolico Klaus Kinski, migliaia di comparse, tra cui una vera corte reale e centinaia di amazzoni africane allenate dallo stunt director Benito Stefanelli, e dà vita a una di quelle imprese prometeiche per cui è noto e che avrà come esito Cobra verde (1987). Chatwin, già malato, volle visitarne il set e vi rimase due settimane.

È COSÌ, attorno a un sogno di cinema che diventa cinema da sogno, che si dipana Nomad: In the Footsteps of Bruce Chatwin, storia del legame tra due personaggi che in fondo, anche se attraverso linguaggi diversi, hanno fatto della finzione l’unico modo per raccontare la verità. Come riassume il biografo di Chatwin Nicholas Shakespeare: «Bruce non diceva mezze verità diceva una verità e mezza. Inventava storie che sembravano più reali della realtà». Proprio come fa il cinema.

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