Due ragazzi su una strada deserta, il motore dell’automobile si incendia, uno conosce la scorciatoia per arrivare alla loro destinazione ma si confonde e si perdono nel bosco. Andrà a vedere se la direzione è quella giusta lasciando l’amico con i bagagli. Nel silenzio della vegetazione, la tensione che è la stessa del personaggio, cresce: è l’inizio di un thriller? Di un horror? E chi sono questi due giovani? Amici? Amanti? Non sono le domande giuste, non con un regista come Christian Petzold che i generi li usa per mutarne le aspettative. Lo stesso accade in questo suo nuovo film, Il cielo brucia, Orso d’argento allo scorsa Berlinale, e in sala il 30 novembre dopo essere stato presentato in anteprima al Torino film festival.
Leon (Thomas Schubel) e Felix (Langston Uibel) sono uno scrittore e un fotografo, il primo alle prese col secondo romanzo – e soprattutto con una crisi creativa – il secondo sta preparando il suo portfolio di fotografie per l’ammissione a una scuola d’arte. Hanno deciso di lavorare nella casa di quest’ultimo sul mar Baltico, la madre però si è dimenticata di avvisarlo che c’è anche un’altra ospite, Nadja (Paula Beer) di cui vedono le tracce ovunque: scarpe, abiti, resti di cena, le grida di piacere con l’amante la notte, il super palestrato bagnino, Devid (Enno Trebs) che presto si unirà al gruppo.
I tre entrano in sintonia, Leon invece rimane fuori: è aggressivo, polemico, noioso, sprezzante, ai suoi occhi senza che si preoccupi neppure di chiedergli nulla, sono solo un bagnino macho e la gelataia. Intorno intanto la foresta brucia, gli allarmi incendio si moltiplicano, i detriti del fuoco vagano nell’aria. E un nuovo elemento, l’editore di Leon (Matthias Brandt), arriva a scompigliare ancora questa precaria situazione emozionale.
Ne parliamo con Petzold al telefono da Torino.

Nel film si discute di arte, di letteratura ma il giovane scrittore bloccato col suo romanzo dimostra di non saper guardare gli altri, la realtà che lo circonda rimanendo impigliato nelle sue convinzioni e nei suoi pregiudizi. Possiamo dire che «Il cielo brucia» è anche una riflessione sul creazione artistica oggi?

Ho iniziato a immaginare questo film tre anni fa, mentre ero a letto col Covid, quando hai paura pensare a qualcosa che non sia te stesso può essere di grande aiuto. Ero colpito da come nelle narrazioni degli ultimi anni ha cominciato a prevalere una dimensione distopica e catastrofica che spesso coincide col la fine del mondo. Questa idea della «tabula rasa» non mi piace, trovo che sia fascista perché azzera ciò che non si può controllare. Il confronto col mondo apre invece la possibilità di mostrarlo nel suo essere complicato ma anche nella sua bellezza. Ho scelto di ambientare la storia durante l’estate pensando un po’ a quei «summer movie» che tanto ricorrono nel cinema americano e anche europeo: l’estate diventa un momento in cui ci si innamora, ci si rinnova, ci si perde, si scoprono nuove direzioni. Ho pensato a Rohmer, a Cecov, ma anche a alcuni film della Nuova onda tedesca degli anni Settanta. C’era una componente dinamica che mi piaceva opporre a quella appunto distopica e fascista della distruzione; penso che sia legata proprio a quell’incapacità di vedere il mondo, se lo sguardo non sa come rappresentarlo preferisce distruggerlo.

Christian Petzold

«Undine», il suo film precedente lavorava sul melodramma, «Il cielo brucia» è una commedia, attraversata da molta ironia, nonostante i diversi passaggi tragici.

Nella commedia non c’è un dio che invece governa la tragedia, ci sono solo gli uomini, e ciò che di tragico succede, come gli incendi in Il cielo brucia, non dipende né dal caso né da un disegno divino ma da noi stessi. La traiettoria di Undine era stabilita dalla maledizione che distrugge la vita della giovane donna protagonista. Qui invece il fuoco che devasta la natura e le esistenze di chi è in quella zona per le vacanze è provocato dagli uomini. C’è un momento nel film, quando i personaggi sono seduti a tavola in giardino col gulasch e il vino rosso mentre nell’aria volteggia la cenere, in cui Nadja fa riferimento al racconto di von Kleist Il terremoto del Cile. Si parla anche del saggio di Werner Hamacher su quello di Lisbona nel 1755 che lo definisce un passaggio epocale alla modernità, con influenze nel pensiero filosofico successivo. Se infatti una catastrofe simile era potuta accadere nonostante dio, questo voleva dire che lui ci aveva lasciato, che non aveva più senso credervi.
Il testo di von Kleist – pubblicato per la prima volta nel 1807, ndr – rappresenta per me un punto di rottura nella storia , quasi un terremoto a sua volta nella struttura, nella forma, nel ritmo. Non è su qualcosa ma si lascia invadere dalla materia stessa con cui si confronta. E questo mi piace moltissimo perché il cinema è per me un’unione di forma e di soggetto mentre oggi sempre più spesso si chiede ai film di essere «su» qualcosa, di concentrarsi su uno specifico tema senza pensare all’aspetto formale.

I riferimenti letterari ricorrono spesso nelle conversazioni, a un certo punto Nadja recita l’«Asra» di Heine , e il film sembra a sua volta essere una riflessione sulla parola, e sulle sue possibilità di rappresentare il mondo; una questione che interroga le immagini.

Da ragazzo la biblioteca era il mio luogo di libertà, dove vivevo non c’erano dei cinema quindi rimaneva solo la televisione che significava però stare seduti sul divano a casa coi genitori, una prospettiva molto noiosa. La finestra della biblioteca era il mio cinema personale, leggevo di tutto, anche libri sul cinema, poi ho studiato letteratura tedesca, e col cinema esprimo il desiderio di connessione tra questi universi. La poesia di Heine non parla solo delle persone che muoiono per amore ma porta anch’essa in sé un riferimento al ritmo, a un patrimonio collettivo di musicalità popolare che rimane ancora in alcuni paesi e che purtroppo in Germania è stato distrutto dal nazismo.

Ha scelto un’ambientazione tra la foresta e il mare, con elementi di romanticismo.

È un luogo che è nel desiderio di molti, una regione vicino al Baltico dove è stato girato anche Nosferatu, che lo ha reso appunto un posto romantico. In realtà le tempeste dei sentimenti fra i protagonisti si affermano poco a poco, non mi interessava tanto concentrarmi sulla potenza dell’amore, al centro c’era per me la dinamica collettiva di un gruppo al cui interno possono nascere anche delle storie d’amore. Mi interessava esplorare le attitudini di una generazione giovane alle prese con un momento di cambiamento importante nella propria esistenza. Sono quattro giovani, parlano, ballano, stanno nel mondo con la loro innocenza ma chi li ha preceduti non ha lasciato nulla.

Paula Beer, la figura femminile, fra loro sembra essere quella che mostra una maggiore consapevolezza, è come se sapesse sempre guardare oltre le apparenze, nel prisma delle cose.

È un personaggio indipendente, non ha mai bisogno dello sguardo di un altro per esistere; la sua vita continua anche fuori dall’inquadratura e questa sua caratteristica mi piace moltissimo.