Di Marco Pantani e della sua morte solitaria e soprattutto ingiusta a 34 anni si sono occupati in tanti: giornali, tv, cinema, magistratura, editoria, gente comune. Tutti pronti a dare giudizi sull’uomo e sullo sportivo. A difendere la sua memoria si è sempre schierata mamma Tonina che ancora oggi spera ci sia «qualche magistratura» che sia disposta a riprendere in mano il caso della morte di suo figlio avvenuta in un residence di Rimini in circostanze quantomeno strane. E lo dice in relazione al film che uscirà per tre giorni come evento dal 12 al 14 ottobre: Il caso Pantani – L’omicidio di un campione. Film diretto da Domenico Ciolfi che fin dal sottotitolo offre una sua versione dei fatti.

PER FARLO il film identifica tre momenti cruciali della vita del Pirata. Il primo è quella mattina di giugno del 1999 a Madonna di Campiglio quando il controllo antidoping rivela un valore di ematocrito troppo alto nel sangue del ciclista e lo costringe a lasciare il Giro d’Italia che stava dominando. Poi gli anni a seguire a Cesenatico, il luogo della famiglia e degli amici con il senso di ingiustizia, la depressione, la cocaina, la fragilità che lo devastano. Infine quella sera di febbraio del 2004 quando viene trovato cadavere.

PER RAPPRESENTARE i tre momenti della vita di Pantani vengono scelti tre diversi attori, tutti rasati a zero e col pizzetto: Brenno Placido è lo scontroso campione che sta per essere sgambettato e buttato via, Marco Palvetti è lo smarrito che non si dà pace per essere stato vittima di un imbroglio e che non riesce più a trovare una bussola esistenziale. Infine Fabrizio Rongione che vive e muore devastato in quel residence riminese. Per ricostruire la vicenda, non quella del campione vittorioso che si vede nei filmati e in alcune dichiarazioni d’epoca, sono state raccolte testimonianze e spulciati gli atti dei processi che si sono succeduti sul triste epilogo della storia di Pantani. E questa parte è affidata all’avvocato Antonio DeRensis, interpretato da Francesco Pannofino. Un docudrama quindi che alterna materiali autentici alla fiction, cercando di attenersi il più possibile aderenti a quanto è accaduto o avrebbe potuto succedere.
Il limite di tutta l’operazione sta da una parte negli interpreti, comprese la figure secondarie, che non sembrano in grado di restituire la complessità emotiva del personaggio, sanguigno, vitale, testardo, ma anche fragile nella sua difficoltà di costruire rapporti umani, dall’altra è che si tratta decisamente di un film a tesi.

E SE LA MOTIVAZIONE della camorra preoccupata per la vittoria certa di Pantani al Giro può essere condivisa (un intervento costruito per non farlo vincere e non sborsare ingenti quantità di denaro per le scommesse), non appare invece convincente la copertura dell’omicidio che occupa tutta l’ultima parte del film. Pur fornendo riscontri che alimentano più di un dubbio su come si sono svolti i fatti, non si capisce perché la magistratura avrebbe dovuto coprire questo omicidio considerandolo suicidio. Non si tratta di un dato secondario perché tutto il racconto è costruito per arrivare «all’omicidio del campione» e dimostrare come Pantani sia finito in una macchina infernale che lo ha stritolato.
Ma un film non è solo una tesi da dimostrare (e certo, informazioni poco note ai più vengono fornite) è un insieme di emozioni che ti accompagnano lungo un percorso narrativo, qui costruito da un insieme di flashback, flashforward e voci off che purtroppo non rendono giustizia cinematografica al Pirata.

COSÌ FORSE sarà anche «l’ora della verità» come recita la frase di lancio del film, ma sono le due ore e mezzo di racconto che non rimangono nel cuore come invece era e rimane nel cuore di tutti gli sportivi quello scricciolo in bicicletta sulla quale è stato capace di imprese memorabili, abbattuto da forze che, come dice la retorica in questi casi, «nulla hanno a che fare con lo sport».