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Il caso Luca Morisi, ovvero gli indifferenti al potere

Il caso Luca Morisi, ovvero gli indifferenti al potereMatteo Salvini a pranzo con Luca Morisi – Ansa

La posta in gioco Come Salvini al Papeete, inebriato dal profumo di un potere indifferente alle possibili conseguenze, ha scelto l’azione più irragionevole e inutilmente pericolosa

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 1 ottobre 2021

Nella vicenda che ha coinvolto Luca Morisi, lo spin doctor di Salvini e artefice della micidiale macchina social che ha segnato l’ascesa politica del capo della Lega, si intrecciano molti elementi. Tra questi, ogni valutazione che concerne la dimensione privata serve solo a distrarre dalla vera posta in gioco, quando non a fare bieco moralismo.

Il tema centrale riguarda la particolare natura del potere politico che la vicenda, in modo del tutto simile a quella che vide protagonista Salvini nell’agosto del 2019, solleva nella sfera pubblica. In quell’occasione l’ex Ministro del primo Governo Conte, in preda a un apparente stato di grazia ormonale, diede inizio alla performance che lo portò di lì a pochi giorni a chiedere «i pieni poteri» per governare il Paese. Sulle note dell’Inno di Mameli in riva al mare e tra bicchieri di mojito, Salvini inspirò a pieni polmoni l’appagante sensazione del potere indifferente. Un potere che non percepisce l’importanza di mediare con le istanze del contesto, con la fragilità e contingenza delle alleanze, con la natura instabile dei patti politici.

Un potere, cioè, che si lega in modo simbiotico alla persona e al corpo del potente, fino a essere indistinguibile dalla sua quotidianità e, nel bene come nel male, a nutrirsene. Un potere socialmente insensibile e trabordante di narcisismo. Anche i protagonisti della Prima Repubblica, certo più capi che capitani, si inebriavano degli aromi del potere, ma avevano imparato a farlo con maggiore misura e oculatezza.

Nella Prima Repubblica, il potere andava gustato con mestiere e a piccolo sorsi, non trangugiato con il rischio di ingozzarsi. I suoi eccessi riguardavano il piacere del consumo e la cifra del primum vivere atta a marcare la distanza sia dall’egemonia che dallo stile di vita “grigio e sovietico” dei dirigenti del Pci, come declamato da un neo-eletto Bettino Craxi dalla terrazza romana dell’Hotel Raphael.

Da parte della Democrazia Cristiana e dei sui referenti, poi, l’agire nel retroscena era la regola aurea. Enrico Cuccia, il patron di Mediobanca, ne è stato l’emblema, Giulio Andreotti l’interprete più noto. Non per nulla il declino di quella classe politica cominciò da un mariuolo, come lo definì Bettino Craxi: quel Mario Chiesa che, il 17 febbraio 1992, si fece cogliere con le mani nel sacco nel suo ruolo di presidente del Pio Albergo Trivulzio. Un personaggio minore colto in flagranza di reato, mentre accettava una tangente da sette milioni di lire. Quella vicenda giudiziaria diede avvio al terremoto istituzionale che portò alle note vicende di Tangentopoli e al crollo della Prima Repubblica. Dopo quasi trent’anni da quegli eventi, la simbiosi con il potere indifferente è costata a Morisi una rovinosa caduta.

Al netto degli accertamenti giudiziari e degli esiti processuali, ciò che emerge dalla cronaca di questi giorni è una stupefacente leggerezza politica. Una manifesta mancanza di prudenza, di chi corre un inutile rischio solo perché può farlo. L’uomo della bestia, il Dottore in Filosofia alla base del successo di uno dei leader politici più popolari d’Italia, che si espone consapevolmente a un rischio dalle conseguenze dirompenti, non solo per la sua persona.

Come Salvini al Papeete, inebriato dal profumo di un potere indifferente alle possibili conseguenze, sceglie l’azione più irragionevole e inutilmente pericolosa. Di tutta la vicenda e dei suoi dettagli, non interessa il rapporto tra quanto accaduto e la fragilità umana ed emotiva dell’uomo Morisi.

E neppure sono di particolare interesse i moniti a non «comportarsi come la bestia». Di altrettanto scarsa rilevanza sono le considerazioni pietistiche sulla vita vuota dei potenti, meno che mai quelle che alludono ai modi di esprimere la propria sessualità o al consumo di sostanze stupefacenti. In un senso e nell’altro, sia come pietas sia come linciaggio morale, si tratta di posizioni intrise di perbenismo e pruderie che celano la vera posta in gioco: la cangiante natura del potere politico.

Dal palco del Papeete, come dalle stanze della casa colonica nei pressi Verona, queste vicende ci parlano di un potere che non percepisce più i propri limiti e che travalica continuamente il confine che separa il retroscena privato dalla scena pubblica. Indifferente alle conseguenze e osceno nel suo manifestarsi. Dove il corpo e la quotidianità del potente possono essere sia leve per la costruzione mediatica del consenso, sia diventare armi per la sua repentina distruzione. Come ha imparato, a sue spese, Luca Morisi.

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