La sua vita l’aveva raccontata in Souvenirs obscure d’un juif polonais né en France, l’autobiografia scritta in carcere nel 1975 dopo il primo processo che lo aveva condannato all’ergastolo per rapine a mano armata, una delle quali, finita con l’omicidio di due farmaciste – accusa quest’ultima che ha sempre respinta. Ma Pierre Goldman, figura ambigua e affascinante, rivoluzionario e rapinatore, scrittore di grande talento, ebreo che rivendica la propria appartenenza, rilasciato nel 1976, ucciso davanti casa, a Parigi nel 1979 a trentacinque anni, da un misterioso gruppo armato fascista «Honneur de la police» mai identificato «rappresentava tutto ciò che odiano gli imbecilli, aveva le caratteristiche dell’uomo da uccidere: ebreo, vicino ai neri, rivoluzionari, ladro, scrittore» come scrisse scrisse nell’editoriale di «Liberation» dopo la sua morte Serge July.

A lui dedica il suo nuovo film, uscito qui la scorsa settimana – cercatelo, vale la visione – il regista francese Cedric Kahn, col titolo Il caso Goldman. Che è un film processuale ma non un biopic la cui narrazione si concentra sul secondo processo, nel 1976, rimanendo nello spazio chiuso del tribunale. Perché quello di Goldman è un caso «esemplare» che fa risuonare la portata degli eventi di un’epoca, i suoi conflitti, la sua violenza. Nell’aula di quel processo in cui Goldman prende la parola per difendersi e per accusare – sostenuto da intellettuali come Simone Signoret, Sartre – e simbolo per la sinistra antagonista del dopo ’68 – si delinea una sorta di mappa politica passata e sempre attuale che interroga l’antisemitismo, il razzismo, la brutalità poliziesca, le false prove costruite ad hoc, i colpevoli perfetti.

COSA porta gli investigatori a accusare Pierre Goldman di un crimine che lui nega – mentre ha riconosciuto gli altri? I testimoni esibiti in aula contro di lui sono deboli, persino i poliziotti si contraddicono. Lui – a cui dà vita con grande precisione Arieh Worthalter – dichiara che si tratta di un complotto. La sua è un’innocenza «ontologica»: «Sono innocente perché sono innocente» ripete. E in quel teatro, nel flusso delle sue parole, spesso gridate ma sempre senza retorica va in scena il Novecento con le sue contraddizioni, con quelle eredità di un passato mai sopito, e la sua sopravvivenza nelle fratture del presente. Kahn non cerca certezze, nella sua ricostruzione precisa l’obiettivo non è tirare una linea tra innocenza o colpevolezza. Piuttosto lascia che la vicenda interroghi chi guarda, e al tempo stesso l’intera società.