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«Il caso Goldman», un processo come mappa della Storia

«Il caso Goldman», un processo come mappa della StoriaArieh Worthalter nel film

In sala Il nuovo film di Cedric Kahn, sulla figura e su un processo che fanno risuonare la propria epoca. Scrittore, rivoluzionario, rapinatore, venne ucciso nel 1979, tre anni dopo il rilascio

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 2 giugno 2024

La sua vita l’aveva raccontata in Souvenirs obscure d’un juif polonais né en France, l’autobiografia scritta in carcere nel 1975 dopo il primo processo che lo aveva condannato all’ergastolo per rapine a mano armata, una delle quali, finita con l’omicidio di due farmaciste – accusa quest’ultima che ha sempre respinta. Ma Pierre Goldman, figura ambigua e affascinante, rivoluzionario e rapinatore, scrittore di grande talento, ebreo che rivendica la propria appartenenza, rilasciato nel 1976, ucciso davanti casa, a Parigi nel 1979 a trentacinque anni, da un misterioso gruppo armato fascista «Honneur de la police» mai identificato «rappresentava tutto ciò che odiano gli imbecilli, aveva le caratteristiche dell’uomo da uccidere: ebreo, vicino ai neri, rivoluzionari, ladro, scrittore» come scrisse scrisse nell’editoriale di «Liberation» dopo la sua morte Serge July.

A lui dedica il suo nuovo film, uscito qui la scorsa settimana – cercatelo, vale la visione – il regista francese Cedric Kahn, col titolo Il caso Goldman. Che è un film processuale ma non un biopic la cui narrazione si concentra sul secondo processo, nel 1976, rimanendo nello spazio chiuso del tribunale. Perché quello di Goldman è un caso «esemplare» che fa risuonare la portata degli eventi di un’epoca, i suoi conflitti, la sua violenza. Nell’aula di quel processo in cui Goldman prende la parola per difendersi e per accusare – sostenuto da intellettuali come Simone Signoret, Sartre – e simbolo per la sinistra antagonista del dopo ’68 – si delinea una sorta di mappa politica passata e sempre attuale che interroga l’antisemitismo, il razzismo, la brutalità poliziesca, le false prove costruite ad hoc, i colpevoli perfetti.

COSA porta gli investigatori a accusare Pierre Goldman di un crimine che lui nega – mentre ha riconosciuto gli altri? I testimoni esibiti in aula contro di lui sono deboli, persino i poliziotti si contraddicono. Lui – a cui dà vita con grande precisione Arieh Worthalter – dichiara che si tratta di un complotto. La sua è un’innocenza «ontologica»: «Sono innocente perché sono innocente» ripete. E in quel teatro, nel flusso delle sue parole, spesso gridate ma sempre senza retorica va in scena il Novecento con le sue contraddizioni, con quelle eredità di un passato mai sopito, e la sua sopravvivenza nelle fratture del presente. Kahn non cerca certezze, nella sua ricostruzione precisa l’obiettivo non è tirare una linea tra innocenza o colpevolezza. Piuttosto lascia che la vicenda interroghi chi guarda, e al tempo stesso l’intera società.

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