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Il caso della prof di Palermo sarebbe stato solo «siciliano»

Autonomia leghista Cosa sarebbe arrivato al dibattito pubblico nazionale, se i fatti si fossero verificati in epoca di competenze rafforzate su base regionale? Il progetto di autonomia differenziata, pronto ad arrivare in Consiglio dei ministri, avrebbe disegnato veri e propri sistemi scolastici a sé stanti, uno per ciascuna regione, con piena potestà legislativa in tema di “organizzazione del sistema educativo regionale di istruzione”, oltre che “organizzazione del rapporto di lavoro”

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 8 giugno 2019

La sospensione della professoressa palermitana che non aveva vigilato su una ricerca dei suoi studenti, montata a ridosso delle elezioni europee, arrivata sulle pagine del Guardian (19/05/2019), ha sollevato lo sdegno e la risposta, da Torino a Cosenza, attraverso la rete e i social. Appelli, “autodenunce” di gruppi di insegnanti, mozioni di interi collegi docenti. Nelle piazze, presidi di solidarietà, letture della Costituzione. I docenti italiani hanno dato prova di partecipazione, di appartenenza ad un progetto comune.

Si sono risollevate le coscienze rattrappite da anni di campagne ideologiche e da una “de-statalizzazione e regionalizzazione strisciante” (R. Calvano, lacostituzione.info, 20 maggio 2019), che hanno ridotto gli insegnanti a scrupolosi travet e la scuola a una controfigura burocratica di se stessa, tutta “progetti e territorio”.

E proprio mentre la professoressa di Palermo rientrava nelle sue classi , accolta in Parlamento con i suoi studenti dalle senatrici Segre e Cattaneo, il ministro Salvini – in nome dei recenti risultati elettorali – tornava con forza ad esigere il suo conto: autonomia differenziata subito. L’istruzione è uno dei nodi centrali del progetto di differenziazione delle competenze regionali attualmente in discussione; gli insegnanti rappresentano una fondamentale “moneta politica di massa” (M. Villone) – oltre che risorsa economica – su cui i governi regionali vogliono mettere le mani, per controllarne reclutamento, formazione, carriere e trasferimenti. Un potere politico di gestione enorme, che una volta acquisito da alcuni governatori – i più efficienti, i più arroganti – diventerà rivendicabile da tutti gli altri.

Cosa sarebbe accaduto alla professoressa di Palermo in una scuola “regionalizzata”? Cosa sarebbe arrivato al dibattito pubblico nazionale, se i fatti si fossero verificati in epoca di competenze rafforzate su base regionale? Il progetto di autonomia differenziata, pronto ad arrivare in Consiglio dei ministri, avrebbe disegnato veri e propri sistemi scolastici a sé stanti, uno per ciascuna regione, con piena potestà legislativa in tema di “organizzazione del sistema educativo regionale di istruzione”, oltre che “organizzazione del rapporto di lavoro”.

Controllo più stretto, e squisitamente politico, su condotte e posizioni personali dei lavoratori, ma anche norme disciplinari e obblighi contrattuali “territorializzati”, previsti da disciplina integrativa locale. Finanche possibilità – come nel caso del Veneto – di definire “le finalità e le funzioni” dell’istruzione: il cosa, il perché e il come studiare. Storia, lingua, cultura e tradizioni locali: la “simbologia” fondativa, il nutrimento di una coscienza nazionale o separatista. E’ questa la grammatica di base su cui il potere regionale vuole mettere le mani.

Come avrebbero reagito, allora, gli insegnanti e gli studenti della scuola piemontese, lombarda, emiliana, se una sanzione ritenuta sproporzionata o illegittima fosse stata data a un’insegnante della scuola veneta? Si sarebbero levati lo stesso sentimento di indignazione, la stessa partecipazione di oggi? Difficile crederlo. La frantumazione territoriale del senso di appartenenza ad un’istituzione nazionale e delle passioni da esso suscitate, sarebbero andate di pari passo con la frantumazione contrattuale e geografica. Il coinvolgimento sarebbe stato a scarto ridotto, il particolare avrebbe prevalso sull’universale: “Affare della scuola veneta”, si sarebbe detto; “compito degli insegnanti e dei sindacati veneti intervenire”, si sarebbe pensato.

Ecco perché, lungi dall’essere un problema di efficienza, la regionalizzazione dell’istruzione è prima di tutto una questione culturale e politica. Ci sono sentimenti che “devoluti” e rimpiccioliti su scala territoriale semplicemente svaniscono. Oggi, pur con le differenze e le disuguaglianze ben visibili e da combattere, esiste ancora una scuola nazionale, con i suoi “programmi”, i suoi contratti, i suoi concorsi e uno sfondo di diritti e di valori in cui riconoscersi e in nome del quale mobilitarsi, impegnandosi in una battaglia comune. Questo, nell’istruzione differenziata, non avverrà più. Ogni regione avrà i suoi affari da sbrigare. E ogni regione combatterà le sue piccole battaglie.

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