Il capitalismo sfruttatore e la rivoluzione agricola
Gli organismi geneticamente modificati sono l’antitesi della biodiversità. Se il loro utilizzo dovesse diventare predominante, assisteremmo a una omologazione colturale che distruggerebbe la pratica delle policolture, con le quali i contadini preparano le piante a far fronte ai cambiamenti climatici e alle temperature in aumento.
L’agricoltura industriale è agli antipodi dell’antroposofia sulla quale si fonda l’agricoltura biodinamica. «Noi uomini non possiamo immaginare di poterci isolare: siamo anzi uniti con il nostro ambiente e in ultima analisi vi apparteniamo», diceva il fondatore Rudolf Steiner.
Gli allevamenti intensivi sono la negazione delle filiere corte e del benessere animale. Secondo la Fao, in quarant’anni il loro numero è triplicato, passando dai 7,3 miliardi del 1970 ai 24,2 miliardi del 2011. Ciò si traduce, prima ancora che in una sofferenza animale sempre poco presa in considerazione e in un aumento dell’inquinamento da CO2, in una perdita di suolo e dunque di diversità della natura.
Il capitalismo di oggi – neoliberista, globalizzato, a misura di multinazionali – sostiene gli Ogm, l’agrobusiness e gli allevamenti intensivi. È capace di monetizzare ogni singolo componente della Terra su cui viviamo e di trasformarlo per trarne profitto. Per opporsi a questo sistema è necessaria una rivoluzione culturale che, per questo, non può che definirsi anticapitalista.
In estrema sintesi, questo si legge in Agricoltura futura, il sistema di produzione del cibo come paradigma di una nuova era, di Piero Bevilacqua. pubblicato dalla casa editrice Slow Food. Non è un caso, perché l’associazione fondata nel 1986 da Carlin Petrini sostiene la necessità di ripensare il nostro modo di mangiare e dunque di produrre il cibo, come un tassello di un cambiamento più ampio che coinvolge l’economia e la società.
Bevilacqua, che è un collaboratore di questo giornale, prova a delineare gli scenari agricoli globali in rapporto al futuro del capitalismo e del pianeta. «Occorre ricordare che l’agricoltura orientata al massimo profitto, e in aperto conflitto con gli equilibri del pianeta, ha non più di un secolo di vita, mentre l’agricoltura praticata dai contadini nelle campagne di gran parte del mondo dura da almeno diecimila anni. Dunque il modo di produrre cibo del capitalismo dei nostri giorni è una invenzione recentissima, incomparabilmente breve rispetto alla tradizione storica», scrive.
In Italia, questo modello ha attentato alla ricchezza delle «mille cucine, legate alla straordinaria diversità di geografie, habitat, culture e tradizioni locali che da secoli hanno fatto del nostro un Paese unico nel mondo per ricchezza e varietà locali di beni agricoli e di produzioni alimentari». È proprio per rispondere a questo attacco che sono nate associazioni come Slow Food, che con i suoi presìdi ha consentito di salvare colture e tradizioni culinarie che altrimente sarebbero state cancellate dal mercato.
Per comprendere quanto sia diffuso il modello dell’agrobusiness, basta guardare alle coltivazioni e agli allevamenti intensivi finiti sommersi in Romagna durante le alluvioni del mese di maggio: si stima che sia stata colpita il 42 per cento della superficie agricola utilizzata, con una diminuzione della produzione lorda vendibile pari a oltre un miliardo e mezzo di euro, e 250 mila animali allevati nelle stalle.
Nonostante il modello dell’agrobusiness non perda colpi e continui a far danni Bevilacqua ostenta ottimismo. Il suo obiettivo è mostrare che un’alternativa non è solo possibile ma esiste già. «Il ritorno ad agricolture di piccola scala, finalizzate alla produzione di cibo e dunque all’alimentazione della popolazione più che alla creazione di merci destinate al mercato, avviene anche indipendentemente dall’azione degli Stati. Accanto al processo di progressivo abbandono o limitazione della produzione di commodities per l’esportazione, è venuto sorgendo un parallelo fenomeno di distacco dal sistema dell’agrobusiness tradizionale di tanti piccoli produttori, i quali hanno sfilato il piede dall’anello della catena che li vincolava. Si è assistito a una spinta silenziosa che sta generando un nuovo scenario in tante campagne d’Europa e del mondo. È la nascita, come li ha definiti Douwe van der Ploeg, dei nuovi contadini», scrive. Per questo oggi si parla di filiere corte, di biodistretti , di sovranità alimentare e di nuovi stili di vita.
Si tratta di un processo nato dal basso che, per Bevilacqua, ha bisogno di una spinta dall’alto, «un progetto globale di coordinamento cooperativo e federale tra i diversi Stati del pianeta, in grado di avviare progressivamente un nuovo ordine giuridico mondiale, una costituzionalizzazione sovranazionale». A suo parere, istituzioni come la Fao, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) non sono sufficienti, perché non hanno il potere di legiferare. A suo parere, sono maturi i tempi di una «Costituzione della Terra», com’è stata proposta dal giurista Luigi Ferrajoli.
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