Cultura

Il caos vitale di una primavera araba

Il caos vitale di una primavera arabaUn murales a Tunisi – La Presse

Intervista Parla la scrittrice tunisina Azza Filali, autrice del romanzo «Ouatann» (Fazi) e ospite oggi di Pordenonelegge

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 18 settembre 2015

Una società bloccata, consumata dalla corruzione e dalla cupidigia, che uccide la speranza e costringe i propri figli all’esilio. La Tunisia descritta da Azza Filali in Ouatann (Fazi, pp. 318, euro 17,50), è quella in cui crescevano ogni giorno di più le ragioni della rivolta contro il regime di Ben Ali e un sistema di potere oppressivo e clientelare che datava dagli anni Cinquanta, che sarebbe infine esplosa negli ultimi mesi del 2010 dando avvio alle «primavere arabe».
Nata nel 1952, medico all’ospedale La Rabta a Tunisi, ma ha anche conseguito un master in Filosofia a Parigi, Filali – che è tra gli ospiti del festival Pordenonelegge in corso in questi giorni (il suo libro sarà presentato oggi nella città friulana alle ore 15 all’Auditorium Vendramini) – ha descritto attraverso sei romanzi e alcuni saggi, pubblicati a partire dagli anni Novanta, il malessere crescente del suo paese e la frustrazione che ha lungamente accompagnato i suoi concittadini.

Grande estimatrice di Patrick Modiano, «già prima che ottenesse il Nobel – tiene a precisare – per il suo modo furtivo di scrivere, a un tempo soave e forte», ha saputo interpretare gli umori profondi di un mondo, anticipandone per molti versi le trasformazioni, fino ad emergere come una delle voci più autorevoli e sensibili della Tunisia e dell’intero Maghreb. Un profilo che Ouatann, scritto alla vigilia della cacciata di Ben Ali nel gennaio del 2011, conferma pienamente, grazie ad un intreccio che sembra spaziare dal romanzo sociale al noir, alternando toni cinici e teneri e una lingua insieme cruda e poetica, quasi sognante.

Ha scritto questo romanzo alla vigilia della rivoluzione tunisina, sentiva che le cose stavano cambiando?

Non in modo cosciente. Mi sono limitata a descrivere il clima che respiravo intorno a me. Ho seguito l’itinerario delle vite dei miei personaggi. Dopo il 14 gennaio, anch’io, come molti tunisini, sono rimasta sopresa per la rapidità degli avvenimenti. Prima tutto era avvolto dal silenzio, quasi il paese non avesse voce per esprimere ciò che sentiva, o gli fosse negata la possibilità di farlo. Poi, è esploso una sorta di caos creativo, quasi avesse ritrovato la propria adolescenza, il sapore di un nuovo inizio, come quando sboccia una storia d’amore, in questo caso con il proprio paese.

Un amore che emerge fin dal titolo che ha scelto per il libro, cosa significa?

Ouatann è una parola araba che può significare diverse cose: patria, paese, lo chez soi del luogo in cui si è nati, nel senso di rifugio o di casa famigliare. Ma il suo significato ha anche a che fare con l’interiorità, con ciò di più prezioso che si cela dentro di sé; in qualche modo la propria anima. E il romanzo è una sorta di grido d’amore nei confronti della Tunisia che viveva in quel momento un profondo malessere che non riusciva ancora a far diventare qualcosa di creativo, una promessa di cambiamento.

Al centro della vicenda c’è una villa in riva al mare che diventa il simbolo di come i tunisini cerchino un’aria pulita per sfuggire all’asfissia a cui li ha condannati il regime…

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In questa casa ho provato a riprodurre un microcosmo della società tunisina. Si trova davanti al mare, quel mare che divide il mio paese dalle coste italiane, ed è perciò anche il luogo della partenza di molti giovani che vogliono emigrare. Qui è vissuto un francese, che l’ha riempita di ricordi e oggetti: un riferimento a ciò che la colonizzazione francese ha lasciato, ma di cui non sembra esserci più memoria. Inoltre, sotto la villa ci sono cantine e grotte nascoste e ignote però a molti: un po’ come è accaduto a lungo per la Tunisia, dove tutto appariva sfumato, incerto, indefinito. I personaggi del libro incarnano i sentimenti emersi in questi anni: la speranza, l’agitazione, lo smarrimento, la rabbia.

Tra loro, la giovane avvocata Michkat, decide di non raggiungere il fratello in Canada, ma di restare in Tunisia. Una presa di posizione sull’emigrazione?

Michkat sceglie di rimanere a vivere in un luogo dove, per una donna libera e autonoma che rifiuta i tabù della tradizione, nulla è davvero facile. Ma è il suo paese, quello dove vivere cambiando le cose ma senza recidere i legami con la sua storia e i suoi affetti. Quando ho scritto il romanzo non ero consapevole del fatto che stavo facendo fare al mio personaggio un’affermazione così forte. Ora mi rendo conto che volevo in qualche modo affidarle un messaggio: perché credo che è in Tunisia, o un altro paese, il luogo dove impegnarsi per cambiare se stessi e la società dove si vive. Chi parte immagina di trasformare la propria esistenza, ma in realtà non fa che trasportare il proprio malessere da un luogo all’altro. Si cambia solo di geografia, ma tranne che non si stia fuggendo dalla morte o dalla guerra, la geografia da sola non basta per vivere.

Dopo l’inizio della primavera araba lei ha scritto un altro romanzo, «Les Intranquilles», dove tira le somme di come sono andate le cose. Quanto è cambiata la Tunisia?

È cambiata totalmente, anche se i cambiamenti vanno considerati come degli strati, come qualcosa di molteplice e in continua evoluzione. Alcuni sono evidenti, chiari, definitivi e riguardano il sistema politico, la Costituzione, le istituzioni del paese. Anche se ciò che considero come l’eredità più importante della rivoluzione riguarda il fatto che abbiamo conquistato la libertà d’espressione: l’unico strumento attraverso cui un popolo può fare davvero il proprio apprendistato della democrazia. Invece, sul piano della coscienza dei cittadini, della loro consapevolezza di diritti e doveri e su cosa significhi essere padroni della propria sorte, molto deve ancora cambiare. Decenni di regimi oppressivi hanno abituato le persone a delegare e a lasciare che altri decidessero per loro conto. Perché le cose cambino davvero ci vorrà più di una generazione.

Accanto alle conquiste democratiche, nella Tunisia del dopo rivoluzione, è emerso anche l’islam politico e abbiamo assistito ad un’escalation violenta. Ha paura?

Sono molto preoccupata, ma credo che le cose vadano analizzate con attenzione. Naturalmente ho vissuto male le manifestazioni dei salafiti che si sono moltiplicate dopo la rivoluzione e il dibattito intorno al «sacro» che hanno cercato di imporre al paese, anche attraverso specifiche scelte legislative sostenute dal partito islamista. Il terrorismo che ha colpito al museo del Bardo o sulla spiaggia di Soussa è un nemico della Tunisia e si deve far luce sui mandanti e sulle coperture politiche di cui gode, ma, contemporaneamente, va prestata attenzione anche ai cambiamenti che sono intervenuti nella società. Dietro alla comparsa dei «barbuti» e delle donne che indossano il niqab, vedo molta miseria morale e materiale e una grande collera a causa della crisi, della disoccupazione. Per queste persone, la religione ha rappresentato il rifugio più facile. Poi, sono apparsi coloro che intendevano manipolare questi sentimenti: i mafiosi della fede hanno iniziato a dire cosa fare, come vivere. Il ragazzo che ha compiuto la strage di Soussa, prima di avvicinarsi all’Isis amava l’hip hop e la break dance. Se vogliamo che i giovani tunisini non diventino facile preda dei terroristi, dobbiamo aiutarli a nutrire le loro speranze e i loro sogni.

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