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Il canto collettivo di Lavoratrici

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Festival Al festival Sguardi Altrove dedicato alla regia femminile, le donne mettono in scena nel film di Alessia Di Giovanni le forme di violenza eclatanti o sottili subite nel mondo del lavoro

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 28 marzo 2015

Un canto di donne in una sera di novembre per strada a Lecce. Canto e cunto, racconto di lavoro, fatica. Inaspettato straniante. Appena qualche tempo fa. Oggi, dunque, e «a casa nostra», come in quel film di Francesca Comencini. Il canto. A mettersi in ascolto lo si sente sgorgare, da un punto unico, una sorgente collettiva: irrora l’aria trapunta di freddo, danza sulla pietra bianco-avorio delle quinte barocche, flirta con la luce dei lampioni in bronzo, come in sogno, viaggiante, eppure qui. 


Loro: strette l’una all’altra, una collana intrecciata di braccia, ciascuna a sentire il proprio ventre, ciascuna un dettaglio purpureo tra gli abiti, sedute, spalle al cerchio, sono appena «cadute», aggredite, morte come quelle la cui storia si sono caricate sulla schiena – a trasformarla in suono luce vittoria – o come la pelle di ognuna, che ogni giorno si riforma, ancora e ancora. Il canto muove da qui, da queste donne. «Onde che si uniscono, muoiono e riprendono forza». 


Nella cartografia assai fertile di Sguardi Altrove, il festival a regia femminile nei giorni scorsi a Milano (fino a domani), fondato 22 anni fa da Gabriella Guzzi e diretto da Patrizia Rappazzo, dal concorso internazionale di documentari «Le donne raccontano», cruciali e precise si alzano le note delle Lavoratrici di Alessia Di Giovanni. 
Non una inchiesta, no, come il titolo potrebbe far pensare: tra donne lavoro e percentuali, valenze a grappoli come in un cubo di Rubik. Non un frontale affondo in quella che era allora l’inesplorata materia del lavoro femminile, tra strutture ancora arcaiche e avvento della modernità, come in Essere donne di Cecilia Mangini (‘64), nel farsi strada fortissimo di una coscienza di sé come della visione, né, per esempio, la mistura acuminata di finzione e realtà, partorita ancora da Francesca Comencini con Nicoletta Braschi in Mobbing Mi piace lavorare (2003). No, il documentario di Alessia Di Giovanni muove da altro, ma al tempo stesso anche da tutto questo, sia pure obliquamente.


Un’ora in compagnia di 20 donne leccesi, attrici professioniste e non, a custodirne il coraggioso inoltrarsi in un laboratorio teatrale ruotante intorno alle forme di violenza (eclatanti e impalpabili), che ognuna di loro ha subito sul luogo di lavoro. Il tutto da un progetto di formazione promosso dalla Consigliera di Parità della Provincia di Lecce con Ammirato Culture House e Nasca Teatri di Terra. Questo il focus, di fatto solo un sasso nell’acqua, da cui si irradiano le loro storie personali, con il rintocco inesorabile della molestia e sua banale brutalità, sia da parte del regista della compagnia (e non c’è niente di più insinuante dello pseudo intellettuale «pigmalione»), del geometra dello studio, o del migrante che stanno supportando come volontarie; e ancora le vertenze, le denunce e le storie parallele, di altre donne che non ci sono più nella carne, ma che in una teatrale creativa empatia di corpi e di spirito attraverso loro vivono, cantano, ridono: talvolta anche lungo i secoli, come Artemisia Gentileschi e Pippa Bacca, o come Paola Labriola, la psichiatra di Bari, uccisa da un paziente e Pavitra Bhardwaj, la ricercatrice indiana che dà fuoco alla sua vita dopo essere stata violata da colleghi. 


I loro lavori, i più svariati, a comprendere anche i «nuovi», la schiera amplissima delle lavoratrici dello spettacolo e della cultura in toto, «diversamente occupate». Instabile variabile mutevole perturbato: non meteo, ma lavoro, in una conciliazione ancora arcaicamente concepita pressoché come affare di donne, ibrido contaminato patchwork spurio acrobatico, per non usare quella definizione che inizia per «p», tanto abusata. Non equamente retribuito, retribuito con ritardo, non tutelato non riconosciuto (e se mi ammalo? Come accade a una di loro, di un tumore, vedi blog Afrodite K di Daniela Fregosi, e se voglio un figlio? E non parlo della pensione perché lì entriamo in un buco nero). 


«Raccontare il lavoro invisibile di oggi … provare a dargli una forma, un’immagine, un suono, un corpo, significa di nuovo nominare e distinguere: renderlo riconoscibile, assegnargli un valore, innanzitutto per noi … per riconoscere l’oppressione e l’(auto)sfruttamento, ma anche il piacere di … ’mettere al mondo qualcosa’… Per ritrovare un tempo del lavoro né determinato né indeterminato, ma autodeterminato». Scrive Teresa Di Martino sull’on line «Il lavoro culturale». 


Un disvelare e un nominare che Di Giovanni, scegliendo di spostarsi a sud dai suoi luoghi lombardi, persegue, lanciandosi, con esiti emotivamente appassionanti, in una delle prove più ardue, il film corale. Qui trasfonde quella sensibilità già rivelata nel graphic Io so’ Carmela, antiviolenza e la storia vera di una ragazzina che infrange l’omertà sociale più coriacea, o ancora nell’ultimo Piena di niente. L’esito, il suo Lavoratrici, un flusso fratto, spontaneo, da instant movie «sbavato» e ancora aperto, una partitura sottile più di sguardi e corpi che di parole e testi, una ironia che infrange cliché, affiorando all’improvviso nei momenti più sconfortati, nel darsi generoso di queste donne, nel loro ostinato non abbandonare, nonostante l’ostilità altissima del contesto, i loro più libranti desideri, i loro giardini. Fino al fiorire inoppugnabile della performance finale. 


Questa segue la strada da anni aperta col «barbonaggio teatrale» da Ippolito Chiarello, l’attore regista guida dello stage, tra protesta che squaderna e incontro occhi negli occhi con gli avventori della pubblica via. Ecco, sebbene intessuta in una sola settimana, tra Chiarello e le protagoniste scorre un’energia che ci arriva come bella e affettuosa. Pure, data la materia in oggetto, sarebbe stato importante che questo affido non fosse presentato come già dato, che si avesse modo di sapere più approfonditamente da dove lui parla in quanto uomo, proprio agendo modelli di relazioni altre negli ambiti in cui più si annidano quelle deviate (è Chiarello per esempio a riconoscere come il suo genere, innanzi al potere femminile altro, arrivi alla violenza pur di non perdere il primato).

D’altro canto si racconta anche di mobbing operato da donne sulle donne, un capitolo purtroppo ampio.
Ecco Lavoratrici apre finestre, perché se ne schiudano altre e altre. Così avviene al fest con Triangle di Costanza Quatriglio, ossia morte di lavoro a Barletta nel 2011 come a New York nel 1911, o ancora con Bintou di Simone Catharina Gaul, nel cuore di una worker madre single in Burkina oggi. Perché oltre la nebbia offuscante della rassegnazione prodotta dal depotenziamento costante, oltre l’assuefazione alla violazione dei diritti, del corpo e dei respiri, l’azione sia sempre più consapevole e più artaudianamente crudele, incisiva, efficace.
Infine la performance finale, incipit di cui sopra e immagine portante del film. Dal corteo di gambe di donne, in omaggio a Truffaut, fino al cerchio. Che sia goccia o ologramma aperto di sedie rosse, di posti vuoti. Ricorda il gioco atroce di quando eravamo bambine, a togliere a togliere, lasciando ogni volta fuori qualcuna. Pure è già irreversibilmente altro. «Lavoratrici, a noi diretto il canto». 
maria_grosso_dcl@yahoo.it

 

“1893. L’inchiesta” di Nella Condorelli

Ode alle radici potenti delle lavoratrici. 1893: “le ragazze dei Fasci siciliani escono da sole anche di sera. Parlano in pubblico … chiedono terra pane e lavoro per sé e per i figli …”. Assaltano municipi, furenti come Demetra, scioperano, imparano a leggere e scrivere, disertano le processioni. A soli 14 anni Marietta De Felice Giuffrida “parla di giustizia sociale”, a 20 Caterina Costanza è alla guida di un corteo. Tante sono arrestate, uccise. “Non credevano che ai Fasci”, il movimento di contadini, operai e zolfatari siciliani, che pretende riscatto dalle inumane secolari condizioni di sfruttamento, che nel 1894 è tacitato nel sangue dal governo regio e dalla mafia, e a cui la storiografia europea guarda come al più importante del XX sec. dopo la Comune di Parigi.

Assetata di storia della sua terra, della sua rivolta rimossa, della forza rigeneratrice delle sue donne, Nella Condorelli, giornalista e archeologa di storia del giornalismo investigativo spericolatamente antagonista, con 1893. L’inchiesta, perfetto a Sguardi Altrove, dona un autorevole e profondo cuore documentaristico a L’agitazione in Sicilia, l’inchiesta, l’unica in materia, del giornalista veneto Adolfo Rossi, allora pubblicata su “La Tribuna”. Ne germina un “road movie” a dorso di mulo, tra reading e animazione b&n (Nico Bonomolo), per un viaggio di 32 giorni: in ascolto del dolore insopprimibile della Sicilia, della sua verità.

 

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