Cultura

Il canone e il rischio dei due Paesi

Il canone e il rischio dei due PaesiFoto di Franco Visintainer (fonte wikipedia)

ITINERARI CRITICI «L’Italia come storia. Primato, decadenza, eccezione», a cura di Francesco Benigno e Igor Mineo per Viella. Secondo gli autori, l’intreccio fra «dualismo e territorialità» ha determinato la contrapposizione rigida di nord e sud, città e campagna. Molti gli stereotipi da decostruire, insieme a un discorso pubblico contraddittorio, anche in pandemia

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 17 luglio 2020

Che cosa significa oggi studiare la storia d’Italia? Si tratta di una domanda apparentemente banale, tutti noi ricordiamo gli eventi salienti di quel passato nazionale che abbiamo appreso sui manuali scolastici, dai comuni medievali fino alla fondazione della Repubblica. In realtà – come spiegano autori e curatori del volume L’Italia come storia. Primato, decadenza, eccezione (Viella, pp. 420, euro 32) – la questione è assai più complessa, anche se affrontata dal punto di vista degli «addetti ai lavori», ovvero di coloro che svolgono le ricerche storiche sulla base delle quali dovrebbero poi essere redatti i manuali.
Nella lunga introduzione, che intende offrire una cornice coerente all’insieme di contributi raccolti in quest’opera collettanea, Francesco Benigno e Igor Mineo osservano che il modo di guardare alla storia d’Italia è mutato significativamente a partire dalla fine degli anni ottanta del Novecento, per ragioni che si collocano all’incrocio fra gli orientamenti della storiografia e i mutamenti dell’ordine internazionale. La fine della guerra fredda, l’accelerazione del processo di integrazione europea, l’affermarsi della storia globale e transnazionale: tutti questi fattori hanno cambiato profondamente le ricerche sul passato.

CIÒ NON È AVVENUTO soltanto nell’ambito degli studi sull’Italia, anzi, nel dibattito internazionale si tende ormai a parlare di una storiografia «post-guerra fredda» che ha sviluppato nuove proposte metodologiche e battuto differenti terreni di indagine, mettendo in discussione le passate gerarchie di rilevanza. I saggi contenuti nel volume pubblicato da Viella si concentrano sulle ricerche relative all’Italia, prendono in esame alcuni aspetti (la chiesa, lo stato, la lingua e la letteratura) o momenti della storia nazionale (il Risorgimento, il fascismo) e nell’insieme restituiscono un quadro articolato della storiografia, prima e dopo la discontinuità rappresentata dall’89.

Secondo Benigno e Mineo, nell’ambito degli studi sull’Italia si sarebbe consumato in maniera particolarmente netta l’abbandono del «canone nazionale» intorno al quale aveva preso forma il racconto storico nel periodo compreso fra il secondo dopoguerra e la fine della guerra fredda. Con la definizione «canone nazionale» i due studiosi fanno riferimento a «un sistema di rappresentazione della storia di un determinato stato-nazione (o di una determinata nazione destinata a farsi stato) che abbraccia una prospettiva di lungo periodo». L’analisi di questo «sistema di rappresentazione» costituisce uno dei fulcri del volume, che riflette sulla tendenza degli studi a costruire intorno ad alcuni caratteri considerati distintivi l’idea di una eccezionalità della storia italiana e (dunque) dell’Italia come paese.

Alcuni degli esempi intorno ai quali si snoda la riflessione sul presunto «eccezionalismo italiano» sono particolarmente interessanti perché sollevano questioni che travalicano la dimensione storiografica, per rimandare anche alla circolazione in senso più ampio di pregiudizi, convinzioni e stereotipi di lunga durata.

È IL CASO di quell’intreccio fra «dualismo e territorialità» che ha determinato la contrapposizione rigida fra nord e sud, strettamente connessa alla contrapposizione fra città e campagna. I termini di questa doppia visione dicotomica possono essere facilmente immaginati anche da chi non ha familiarità con quegli studi che – direttamente o indirettamente – hanno finito per accreditarla: un’Italia meridionale prigioniera dell’immobilismo e dell’arretratezza, nonché del familismo e della corruzione politica, a traino di un un’Italia settentrionale dinamica, pronta inserirsi nel processo di modernizzazione, fucina della classe dirigente del paese. Numerose ricerche hanno da tempo decostruito questa lettura dualistica, per restituire un’immagine assai più mobile, articolata e complessa.

Tuttavia la tentazione di riproporla – più o meno surrettiziamente – finisce non di rado per avere la meglio, grazie alla potenza semplificatrice (ma contemporaneamente mistificatrice) delle interpretazioni dicotomiche.
Queste considerazioni, che pure riguardano la storiografia, ci esortano a riflettere sulla persistenza del riferimento ai caratteri immutabili della realtà italiana anche nel discorso pubblico. Molti esempi potrebbero essere rintracciati guardando a questi ultimi mesi, segnati dall’esperienza della pandemia. Nel periodo dell’emergenza e dell’isolamento si è sviluppato un discorso pubblico gravido di contraddizioni, che da un lato ha fatto appello all’unità nazionale (le bandiere tricolore alle finestre) come strumento di coesione necessario a superare la difficile prova a cui era sottoposto il paese.

DALL’ALTRO i commenti sull’incidenza del virus e sui divieti di circolazione delle persone hanno insistito sulla presenza di confini interni alla penisola, riproponendo anche l’immagine di un nord e di un sud separati e contrapposti, ovvero di due paesi, uno dei quali doveva difendersi dall’altro. Dunque questo volume che si interroga sui modi in cui la storia d’Italia può essere pensata e scritta, ci ricorda che l’analisi del passato ci offre chiavi di lettura utili per guardare al presente.

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Scheda. Questioni territoriali e un Manifesto per riabitare l’Italia 

È un progetto ambizioso quello del volume appena edito da Donzelli che si intitola Manifesto per riabitare l’italia (a cura di Domenico Cersosimo e Carmine Donzelli, con cinque commenti di Tomaso Montanari, Gabriele Pasqui, Rocco Sciarrone, Nadia Urbinati, Gianfranco Viesti, pp. 272, euro 19). Frutto di un primo volume edito due anni fa sui temi inerenti la questione territoriale, oggi si trasforma in documento programmatico corredato da un abbecedario di 28 parole chiave. La riflessione della introduzione – da parte dei curatori – pone i termini della «nuova immagine aggregata» dell’Italia considerando anche il nodo della pandemia che, come una potente radiografia, ha fatto esplodere tutte le contraddizioni di metropoli autocentrate quanto della concentrazione dei servizi in ospedali grandi e specializzati a scapito della medicina territoriale e diffusa. I margini e le periferie allargano lo spettro concettuale che delle 28 parole che concorrono a «ripensare le forme stesse dell’insediamento, della mobilità, del rapporto con l’ambiente e con la salute, del lavoro, della qualità della vita». Ciascuna delle voci ha profondità storica e un assetto già politico determinato da quel cambiamento di sguardo e postura che riconosce la crisi del «centro» come conseguenza degli ultimi decenni di pratiche progettuali volte a trovare relazioni, culturali, di immaginario e connessioni. Accade leggendo la voce «Abbandoni», a cura di Francesco Curci e Federico Zanfi e prosegue con il lemma «Accessibilità», altrettanto cruciale a cura di Andrea Debernardi, come «Politiche» di Sabrina Lucatelli e «Scuola» di Daniela Luisi e Cristina Renzoni, o «Terra» di Alessandra Corrado e Carlotta Ebbreo. L’arcipelago di significati segue ulteriori riposizionamenti, emerge anche nella voce «Acqua» di Gianfranco Becciu in rapporto a interventi antropici che ne hanno aumentato la criticità nei processi di trasformazione del territorio. Bisogna allora fare intervenire altre parole, per esempio equilibrio, cambiamento, fragilità. C’è poi la voce «Confini» a cura di Fabrizio Barca, punto utile insieme a Patrimonio di Antonio De Rossi o «Persone» di Pietro Clemente. Un volume che somiglia a un laboratorio e in effetti lo vuole diventare. (redazione cultura)

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