Annunciata da tempo e periodicamente con newsletters e comunicati stampa, la 15/ma edizione della Istanbul Biennal, curata dal duo scandinavo di artisti Elmgreen & Dragset, ha resistito indenne alle nebulose vicende politiche della Turchia e ieri ha sfoderato i suoi assi nella manica: gli artisti che parteciperanno alla kermesse (55 in tutto, provenienti da 32 paesi). Con un atteggiamento che somiglia un po’ a una rimozione, senza rilasciare dichiarazioni o prendere le distanze dagli arresti di intellettuali, dalle censure pesanti subite dalla cultura. In un clima che il presidente Erdogan ha reso più che fosco, la rassegna di arte contemporanea (16 settembre / 12 novembre), il mondo dell’arte non sembra interrogarsi sul contesto che la ospiterà, lasciando anche immutato un titolo surreale: A good neighbour, il buon vicino.

L’invito è quello di aprirsi all’«altro», nutrendo speranze e visioni. In un momento, però, in cui forse sarebbe meglio dare vita a un gesto forte, per esempio dichiarando impossibile lo svolgersi della mostra. A complicare i giochi di questa Biennale, c’è pure lo sponsor consueto, unico partner dal 2007, la potentissima azienda Koç Holding che, tra le altre cose, costruisce navi da guerra. Ma il comunicato tace su tutto e imperterrito annuncia le sedi (dall’Istanbul Modern alla Galata Greek Primary School, fino al Pera Museum) e gli ospiti: ci saranno Mark Dion, Olensen, Ali Taptik a Monica Bonvicini, Latifa Echakhch, Mirak Jemal, Yonamine, De Bruyckere, fra gli altri. Con alcuni omaggi ad artisti scomparsi – Bourgeois, Lee Miller, Lanhas.