Cultura

Il buon diritto alla Comune

Il buon diritto alla ComuneNew York allo specchio – Peter Zullo

David Harvey Una rete per le mille forme di «attivismo di prossimità» presenti nelle città. Un’intervista con il geografo statunitense, in Italia su invito del Teatro valle occupato e per presentare il suo nuovo libro «Città ribelli»

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 1 ottobre 2013

«È come un grande terremoto preceduto da piccoli traumi quello che apre spazi come il teatro Valle, ma anche altrove, nelle fabbriche recuperate o nell’attivismo nei quartieri» afferma il geografo David Harvey, tra i più ascoltati intellettuali marxisti nel mondo. Parole che stridono con la campagna de Il Messaggero e Il Corriere della Sera contro il Valle. Gli attacchi, anche personali, sono ricominciati il 18 settembre scorso quando il Valle occupato ha presentato la sua fondazione, finanziata con 250 mila euro da cittadini e artisti, risultato della scrittura collettiva di uno statuto che rende il teatro un «bene comune», in altre parole un’istituzione dell’auto-governo. Per i quotidiani, invece, il teatro sarebbe stato «privatizzato» da una «minoranza», un’accusa che viene formulata contro tutte le occupazioni, e non poteva mancare anche nel caso di un teatro che è diventato un simbolo. Il punto di vista di Harvey, frutto dell’assidua frequentazione delle città globali, è utile per smontare questa campagna politica. Per usare un’espressione cara al geografo americano, quello del Valle è uno dei sintomi della «lotta di classe» che si svolge nelle «città ribelli», titolo del suo ultimo libro pubblicato in Italia da Il Saggiatore (Il Manifesto, 12 settembre).

La conversazione è avvenuta nel foyer del teatro affollato da centinaia di persone, durante una pausa del seminario sulle «lotte spaziali». È stato organizzato dal gruppo di ricerca Oecumene project, insieme al Valle, e ha visto partecipazione di filosofi, ricercatori, artisti e attivisti provenienti da tutta Europa. «Stiamo assistendo a una rivoluzione urbana – continua Harvey – Nelle città ci sono sempre eventi che spingono le persone ad aggregarsi credendo di poterla cambiare e di combattere potenti forze politiche e economiche».

Quali sono le ragioni di questa rivoluzione?

Quello che trovo interessante nelle città contemporanee è l’esistenza di un enorme numero di spazi pubblici dove il «pubblico» viene negato oppure regolato in maniera restrittiva. Ad essere negata molto spesso è la libertà di movimento, la libertà di incontrarsi, di fare un’assemblea. Avere spazi aperti è molto prezioso per chi vuole riportare tale libertà nella città ed estenderla ad un progetto politico più ampio che per me resta la lotta contro il capitalismo e a favore del popolo. Questa è una costante in molte città dove esistono movimenti simili a quelli che si vedono a Roma. È un segno che lascia ben sperare.

Lei sostiene che questi movimenti esercitano un «diritto alla città». In cosa consiste?

Il diritto alla città non significa avere semplicemente il diritto a ciò che esiste in una città. Riguarda il potere di trasformarla insieme alla vita delle persone che ci vivono. La maggior parte delle città sono dominate da poteri economici e finanziari, da signori del denaro che detengono un enorme potere. Questi movimenti cercano invece di esercitare un potere in nome di un diritto a una città alternativa, fondata su buone relazioni sociali, sulla giustizia sociale, su una società ecologicamente equilibrata e stabile. Accanto a queste rivendicazioni ne esistono molte altre e sono utili per ricostruire un’altra immagine della città rispetto a quella tramandata da duecento anni di storia del capitalismo.

Il capitalismo ha rivoluzionato l’urbanistica della città. In che modo il neoliberismo, che è stata una svolta di particolare rilievo in questa storia, l’ha condizionato negli ultimi trent’anni?

A mio avviso l’urbanizzazione è stata sempre un progetto di classe. Un progetto che ha concentrato una grande ricchezza e altrettanto potere nelle mani di élite molto piccole. Queste persone hanno espropriato la maggioranza della popolazione della capacità di contribuire alla vita urbana in un modo diverso. Il progetto ha svuotato in molti modi la città dalla sua libertà, sostituendola con gli spettacoli, con il turismo, con il consumismo in eccesso rispetto ai bisogni sociali che non vengono considerati nella maggior parte delle grandi città nel mondo. In questo modo si è persa l’idea della città intesa come un organo politico che permette la raccolta di diverse cittadinanze. Tutto è stato mercificato e messo nelle mani dei calcoli dei manager. Marx ha detto una volta che il denaro distrugge la comunità e la trasforma nella comunità del denaro, proprio com’è diventata oggi la città. Per questo bisogna ripensarne un’altra a partire dalle persone e non dai profitti.

Lei descrive un «nuovo proletariato» che vive e lavora nella città. È composto tra l’altro dai precari, dai lavoratori autonomi, ad esempio. Qual è il suo ruolo nella trasformazione globale in atto?

Questo proletariato ha un ruolo molto importante e grandi potenzialità. Il problema semmai è della sinistra che si è sempre concentrata sull’idea del lavoro fabbrica e sulla centralità della sua rappresentanza. Da tempo si lamenta della sua scomparsa, anche perché sente di avere perso il cuore del suo progetto politico. Ma se si viene in un posto come questo (Il Valle, n.d.r.) e si entra a contatto con l’attivismo della specie che si vede qui, sono molti gli elementi che lasciano credere nell’esistenza di un altro progetto politico che consiste nel rivendicare il diritto alla città, alla sua riorganizzare e alla sua trasformazione.

Quali le principali caratteristiche di questo progetto politico?

Il proletariato è sempre stato impegnato nella produzione e nella riproduzione della vita urbana. Nella sua storia sono emersi diverse politiche. Antonio Gramsci, ad esempio, ha teorizzato i consigli di fabbrica. Ma quando si pose il problema di potenziare l’organizzazione politica, riconobbe la necessità di associarli all’organizzazione dei quartieri o del vicinato. Questa idea di organizzazione non raccoglie solo le sezioni della classe operaia, ma può catturare tutte le classi lavoratrici. Il progetto consiste nel fare cooperare questa diversità sociale attraverso l’attivismo di prossimità (neighborhood activism) che oggi include gli impiegati di banca, gli spazzini, i tassisti e tutti coloro che producono e riproducono la vita. Se riuscissero ad organizzarsi, si potrebbe bloccare un’intera città.

Come accadde nel 1990 a Los Angeles con «Justice for Janitors» o a Chicago nel 2006 con lo sciopero dei lavoratori migranti durato un’intera giornata?

Esatto, proprio così. Se la sinistra seguisse l’idea di Gramsci di organizzarsi nei luoghi di lavoro come nei quartieri, si creerebbe un potere duale. Dal punto di vista storico a me interessa capire come e perché le lotte nelle fabbriche hanno vinto. Quando è accaduto è stato perché avevano ricevuto l’appoggio dei quartieri. Riorganizzare in questo modo la vita di chi lavora nei luoghi della produzione con la vita della popolazione cittadina, sarebbe un cambiamento drammatico per il funzionamento attuale della politica.

E in che modo cambierebbe?

Dobbiamo veramente ripensare il modo in cui ricostituire i movimenti politici dal basso verso l’alto. La vita urbana è la forma centrale dell’attivismo politico ed è la portatrice di una potenziale rivoluzione. L’obiettivo non è solo l’accesso ai mezzi di produzione, che è molto importante, ma anche la conquista dell’accesso alla città. Il soggetto e l’oggetto di queste azioni restano, a mio avviso, la produzione e la riproduzione della città. Oggi esistono molte organizzazioni che si propongono di farlo insieme alle popolazioni. Sono strutture che assumono anche la forma di sindacati, sebbene usino spesso altre forme.

Quali, ad esempio?

Sono molte, anche radicali, e si ispirano ai diritti umani. Li usano per evitare la legislazione che definisce le condizioni per organizzare e far funzionare un sindacato. Molto spesso queste leggi escludono diverse categorie di lavoratori, come ad esempio il precariato. Questo accade in molti paesi. Si tratta di nuove forme organizzate che agiscono come i sindacati, anche se non sono come i sindacati tradizionali. Credo che siano il sintomo di un movimento globale in cui politica non riguarda più il partito politico tradizionale, né il modo classico di fare sindacato. Un esempio è senz’altro quello del teatro Valle che si è dotato di una fondazione. Ciò permetterà di creare una nuova istituzione che esprime un potere diverso nella città. Non credo che qualcuno ci abbia pensato prima. Avverto l’esistenza di una grande creatività che sta cambiando davvero le cose.

Quali sono i rischi che corrono questi movimenti?

Nel mondo anglosassone c’è sempre il pericolo di tornare nel solco dei modelli dominanti che spingono queste esperienze a diventare «Organizzazioni non governative» convenzionali oppure fondazioni di beneficenza. Ma credo che le persone siano molto consapevoli di questo pericolo, perché sentono di far parte di un movimento di avanguardia che non mira semplicemente ad essere istituzionalizzato, ma che vuole cambiare la città.

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