Cultura

Il brand avvelenato della globalizzazione

Il brand avvelenato della globalizzazioneUn'installazione di Shahpour Pouyan

Tempi presenti «Generazione Isis» di Olivier Roy, per Feltrinelli. Secondo lo studioso francese, i club di sport da combattimento sono più rilevanti delle moschee per la socializzazione jihadista

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 28 luglio 2017

È probabile che la sconfitta militare dell’Isis, annunciata dalla caduta di Mosul e da quella sempre più probabile di Raqqa, non metta fine né alla minaccia degli attentati, né soprattutto all’appeal che questa sigla sembra possedere agli occhi di un certo numero di giovani, anche europei. Privati di una terra di conquista e di possibili roccaforti organizzative, proprio l’estensione di questo fascino sinistro potrebbe anzi rappresentare l’eredità più terribile consegnata al mondo dai seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi.
È da una simile constatazione che muove l’ultimo lavoro di Olivier Roy, Generazione Isis (Feltrinelli, pp. 124, euro 14), studioso attento non solo dei fenomeni legati all’Islam politico, ma anche della crescente correlazione tra i processi sociali insiti nella globalizzazione e la sfera simbolica, culturale e religiosa, al punto da aver annunciato molte delle tendenze attuali oltre una quindicina di anni fa nel suo Global Muslim.

NEL CONCENTRARSI ORA su quei giovani europei «che scelgono il Califfato», Roy attinge elementi da una serie di biografie, emerse nella realtà franco-belga, quella che numericamente ha offerto più seguaci all’Isis – sugli oltre quattromila stranieri reclutati dall’organizzazione tra il 2013 e il 2014 -, nell’arco degli ultimi vent’anni. Da Khaled Kelkal, giovane beur della banlieue lionese che si segnalerà tra i primi attentatori votati alla morte già nel 1995, fino ai responsabili delle stragi di Charlie Hebdo e del Bataclan.
I protagonisti di queste vicende hanno caratteristiche simili, tali da farli considerare come un campione significativo dell’intero fenomeno. Appartengono in massima parte alle cosiddette «seconde generazioni» dell’immigrazione magrebina, e musulmana, o sono dei «convertiti» all’Islam; sono spesso passati per la microcriminalità e le gang giovanili prima di conoscere una rapida conversione religiosa; la loro traiettoria di adesione all’Isis si accompagna, e si nutre, di una «evidente fascinazione per la morte» che, non a caso, rappresenta l’epilogo ricercato del loro percorso che si conclude con un attentato suicida o con l’uccisione, cui non si cerca di sottrarsi, da parte delle forze dell’ordine.

Separati gli obiettivi e l’ispirazione dei fondatori dello Stato Islamico, riconducibili ad una filiazione ideologica di lungo corso già passata per i talebani afgani e Al-Qaeda, da quelle che caratterizzano questi giovani adepti europei dell’organizzazione, lo studioso procede a «smontare» gli argomenti abitualmente utilizzati per descrivere tali vicende: quelli cari ai commentatori conservatori che tendono a considerare l’Islam tout court come un arcaismo minaccioso e la violenza come una sorta di suo naturale corrollario e quelli, di ispirazione progressista, che vedono in qualche modo nel terrore jihadista una sorta di eco alle sofferenze inflitte alle popolazioni della sponda sud del Mediterraneo dai colonialisti europei e dai loro attuali epigoni.

L’APPRODO DELLA RICERCA di Roy conduce invece non solo a leggere le traiettorie dei giovani jihadisti all’interno, e spesso come un frutto pressoché esclusivo dei codici tutti moderni del mondo globale, ma alla luce di una valutazione che potrebbe risultare illuminante anche per altri contesti, vale a dire che «non si può comprendere la politica se non si tiene conto della costruzione degli immaginari». Secondo lo studioso francese, gli aspiranti «martiri» della jihad globale costruiscono, infatti, la propria identità rielaborando – e per certi versi «inventando» – un proprio immaginario religioso e politico.
Così, se sul terreno la genesi dell’Isis è inestricabile dalla complessa geopolitica mediorientale, e dal ruolo che vi hanno svolto occidentali e statunitensi in primis, per alcune migliaia di giovani europei adepti del Califfato, non risultano particolarmente attrattivi né i rimandi alla causa palestinese, né la reazione al razzismo e all’islamofobia montanti.
Allo stesso modo, questi jihadisti, pur avendo dei punti in comune con le dinamiche che spingono dei loro coetanei verso il salafismo, sono motivati solo in modo molto particolare dalla religione. Al punto che per Roy «i club di sport da combattimento appaiono più importanti delle moschee per la socializzazione jihadista».
Spesso neofiti assoluti della fede, che attribuiscono scarsa importanza alle norme e ai dettami religiosi e hanno una conoscenza superficiale dei testi sacri – nei video-testamento girati prima di un’azione suicida tornano ossessivamente le medesime citazioni del Corano a riprova di un linguaggio adottato più per la sua simbologia che per il suo reale significato -, i sostenitori del Califfato definiscono la propria identità religiosa attingendo alla propaganda fondamentalista online, ma appropriandosi soprattutto «di elementi teologici, pratiche, immaginari e riti per costruirsi una trascendenza che si incardina sul disprezzo della vita, della propria e quella degli altri».
In un certo senso, utilizzano l’Islam come una bandiera identitaria non in virtù della loro fede ma proprio perché ne hanno fatto una sorta di «brand» combattente senza radici culturali. Questo senza considerare che la loro è, prima di ogni altra cosa, una «religione della morte».

PIUTTOSTO, L’ADESIONE allo jihadismo apre la strada al considerarsi protagonisti di una «causa globale», quella dei musulmani vittime degli occidentali, e umiliati nei loro stessi paesi, abilmente diffusa e lavorata dalla propaganda dell’Isis, che offre una qualche legittimità al proprio individuale senso di sconfitta, trasformando «in eroe e ’vendicatore’ l’individuo che si percepisce come umiliato e dominato».
Un tema, quest’ultimo, che sembra rimandare alle tesi sul «perdente radicale», il modo in cui il risentimento per la perdita di status, reale o simbolica, può alimentare il desiderio di distruzione di sé come degli altri, già proposte da Hans Magnus Enzensberger, ma che introduce anche un possibile parallelo con la «sindrome di Columbine» o con le stragi dell’odio, come quella compiuta da Anders Breivik a Oslo, a riprova di come la figura dell’assassino di massa-suicida sia ben radicata nella contemporaneità.

QUESTI GIOVANI che si percepiscono come «perdenti», appaiono perciò per certi versi come delle «bombe a orologeria» già sul punto, e disponibili, a esplodere prima dell’incontro con il terrorismo organizzato che fa leva sulla loro condizione, adottando un doppio registro narrativo: da un lato quello religioso, e classico, che verte sul ritorno del Califfato che mostrerà il potere e le gloria dei musulmani, dall’altro quello ispirato alle culture giovanili che pesca nell’immaginario gore delle decapitazioni esibite in rete e dell’estetizzazione della violenza.
In questo senso, lo jihadismo europeo, che pur si ispira al fondamentalismo religioso musulmano, finisce per derivare «non dalla radicalizzazione dell’Islam, ma dall’islamizzazione della radicalità». I giovani adepti dell’Isis non sono infatti degli utopisti, per loro «la salvezza risiede nel sacrificio e non nella costruzione di una società islamica giusta» e «la violenza si presenta non come un mezzo ma come un fine, una violenza non future».
All’orizzonte non c’è alcun «avvenire radioso», la sola prospettiva è costituita dalla guerra, dalla morte e dal giudizio finale, «prima per se stessi. poi per tutta l’umanità». L’intero percorso si motiva, verrebbe da dire, grazie ad una spettacolare uscita di scena: la rappresentazione eroica della propria fine in una rappresentazione dell’orrore che trova nel mondo globale il proprio palcoscenico.

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