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Il boss, il funerale e i poteri ciechi

Il boss, il funerale e i poteri ciechiIl funerale del boss Casamonica a Roma

Un tempo avremmo detto che per qualunque evento di rilievo ci sarebbe stato da qualche parte un poliziotto, un carabiniere o magari un vigile urbano avvertito di quel che era […]

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 21 agosto 2015

Un tempo avremmo detto che per qualunque evento di rilievo ci sarebbe stato da qualche parte un poliziotto, un carabiniere o magari un vigile urbano avvertito di quel che era accaduto o sarebbe accaduto. Ai meno giovani sarà forse successo di trovarsi per caso in questura e scoprire che al di là della scrivania sedeva un tale perfettamente informato delle vicende personali, lavorative, familiari, e persino scolastiche (quando è capitato a me, ero studente).

Per chi è favorevole, questo essenzialmente accade perché, quando si parla di sicurezza e di ordine pubblico, la parola d’ordine è conoscere per prevenire. E uno Stato efficiente dispone a tal fine sul territorio di occhi ed orecchie. Ma proprio per questo stupisce, e molto, la dichiarazione del prefetto di Roma di non essere stato informato sul funerale del boss Casamonica. Un evento così imponente deve aver richiesto un vasto impegno organizzativo. Possibile che nessuno abbia visto, sentito, sospettato, supposto, ipotizzato alcunché? Possibile che l’intera preparazione – incluso l’elicottero lancia-rose – sia stata coperta da tale rigoroso segreto da non essere in alcun modo percepita nel suo svolgersi? Soprattutto considerando che si tratta di un personaggio già sotto osservazione in rapporto a vicende giudiziarie? Possibile che non sia stata colta nemmeno una comunicazione, una telefonata, un messaggino?
Se dobbiamo pensare questo, e concludere che tutto poteva svolgersi nel più assoluto segreto, allora la battaglia con la criminalità organizzata è già persa. Personalmente non credo che fosse precluso ai pubblici poteri ogni intervento sulle modalità di svolgimento del funerale. Ma il punto più grave è la dichiarazione di ignoranza da parte della autorità preposta. Perché è una ignoranza che denota la inefficienza della struttura cui quella autorità presiede. E presuppone forse che qualcuno abbia saputo e taciuto, per connivenza, indebita tolleranza, o anche solo quieto vivere.
Preoccupa anche l’indignazione di Orfini. Non per lui personalmente, è ovvio. Ma perché anche il Pd, se fosse un vero partito, avrebbe in qualche modo saputo di quel che stava per accadere. Lo stato non ha occhi ed orecchie sul territorio, ed è grave. Grave è che non le abbia nemmeno il Pd. Ma in fondo lo sapevamo. Come potrebbe essere diversamente quando i circoli territoriali si aprono solo per i riti primariali e le campagne elettorali?

Preoccupa infine la burocratica dichiarazione di incompetenza del parroco. Ci ha ricordato da vicino quel comunicato stampa del Vicariato del 22 dicembre 2006 che sembrava scritto da un funzionario della Agenzia delle entrate: «Il Vicariato di Roma precisa di non aver potuto concedere tali esequie (ecclesiastiche: nda) perché, a differenza dai casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del Dott. Welby di porre fine alla propria vita, ciò che contrasta con la dottrina cattolica» (segue citazione). Consigliamo rispettosamente al parroco di leggere l’articolo del cardinale Martini pubblicato sul Sole 24 Ore del 21 gennaio 2007, con l’illuminante titolo «Io, Welby e la morte». Giusto per dimostrare che c’è una Chiesa che si occupa di quel che accade fuori della porta, e c’era anche prima di Papa Francesco.

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