Per attirare l’attenzione del mondo sul disastro imminente, alcuni attivisti ambientalisti hanno cominciato una battaglia – politica e comunicativa – mirando all’arte. Così, a colpi di zuppe di pomodoro e lanci di puré di patate, prima i girasoli di Van Gogh alla National Gallery di Londra, poi i covoni di Monet a Potsdam sono diventati il bersaglio di azioni dimostrative (ultima, ieri, la statua di cera di re Carlo III al Tussauds di Londra ha preso una torta al cioccolato in faccia, ma qui pochi si sono preoccupati). Anche la Primavera botticelliana ha «combattuto» per l’ambiente quando, in un’incursione, alcuni manifestanti incollarono le mani sull’opera.

Nessun dipinto è andato perduto nella guerriglia simbolica dei gruppi ambientalisti (Stop the Oil e Last Generation) che, paradossalmente, hanno dimostrato un certo rispetto per l’arte: sia per il valore universale accordatole (più di alcuni governanti), sia per essersi prima assicurati che le opere, protette da vetri, non subissero danni. Nel rivendicare l’azione fulminea, però, gli attivisti a loro volta sono stati colpiti da un effetto boomerang.

Niente sdegno sul cambiamento climatico e le vampiresche industrie petrolifere: l’unica immagine rimasta impressa è quell’improbabile materia liquida gocciolante su due capolavori assoluti. Il messaggio politico è evaporato all’istante, insieme al pianeta da salvare. L’azione disobbediente, in un cortocircuito di senso, ha dirottato l’attenzione sull’arte stessa. La protesta ha superato i confini del museo per poi tornare indietro, silenziata, nel perimetro di un quadro e della sua cornice inzuppata. Meglio non sottovalutare il potere esoterico dei capolavori.