Visioni

Il Black Friday e il confine fra desideri e bisogni

Il Black Friday e il confine fra desideri e bisogniUna scena della serie «Sex and the City»

Habemus Corpus Il concetto di necessario e di superfluo in un’economia di mercato che ha tutto l’interesse a vendere sempre di più

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 24 novembre 2021

Prendo spunto da un sentito sfogo di Lisa Ginzburg che ieri ha scritto «Parole odiate: Black Friday». Concordo, condivido e rilancio: odiatissimo. Non è una questione di termine linguistico, che anche lì ci sarebbe molto da dire sulla mania di sposare l’inglese, ma proprio di senso profondo. Mutuato, come l’altrettanto da me detestato Halloween, dalle abitudini statunitensi, il Black Friday è diventato un tormentone pubblicitario presentato come la mecca dei consumatori, il giorno o il periodo più felice dell’anno, l’evento cui non ci si può sottrarre, l’attesa del messia degli acquisti in vista del Natale perché… Perché possiamo comprare roba, tanta roba a prezzi stracciati.
A parte che si potrebbe chiamare «Giorno dei saldi, degli sconti» o, come fanno gli svizzeri, «Azione» che a noi fa sorridere perché ci fa pensare all’attivismo motorio più che ai ribassi, il Black Friday evoca scene di isteria di massa viste oltre oceano con gente che attende davanti alle porte dei negozi ore e ore prima dell’apertura per accaparrarsi l’offerta migliore, il bene tanto agognato come se fosse una questione di vita o di morte.

Scarpe, borse, abiti, prodotti elettronici, cosmetici, trattamenti estetici, mobili, articoli di arredamento, gioielli, giocattoli, ormai anche da noi il Bf è applicato a tutto ciò che è comprabile e viene usato come induzione al consumo. Se è vero che in un’economia di mercato chi vende ha tutto l’interesse a vendere sempre di più, e chi ha sempre meno da spendere cerca di spendere il meno possibile, l’idea di società che ci rimanda il Bf mi fa venire voglia di starne alla larga il più possibile e mi spinge alla sottrazione piuttosto che all’accumulazione.
Chi siamo? Che cosa ci caratterizza? Ciò che diciamo, leggiamo, pensiamo o ciò che acquistiamo? Che cosa ci serve davvero per vivere meglio? Faccio un esempio autocritico. Ho la malsana passione per le scarpe. Le compro, ma poi finisco per indossare quasi sempre le stesse, lasciando le più alte e stupefacenti nella scarpiera e mi do della scema. Conoscendo questa mania, sto lontana dal Bf perché so che lì sta il nemico.
Il concetto di necessario e superfluo è fluttuante e relativo, cambia secondo le condizioni di partenza e anche secondo le manie, appunto. Se hai zero paia di scarpe, arrivare a un paio ti sembrerà una grande conquista. Se appartieni a quel milione e 346mila minori in Italia che vivono in povertà assoluta e l’unico pasto completo che riesci a fare è quello della mensa scolastica, trovare una bistecca per cena diventa una festa. Se abiti in una città senza fogne né rete idrica, poter bere l’acqua potabile che scende da un rubinetto non è un gesto normale, ma una salvezza.

Una volta feci un’inchiesta sui desideri delle persone, in termini proprio di salari. Chi prendeva mille non agognava di arrivare a cinquemila, ma si sarebbe accontentato di mille e cinquecento. Chi prendeva duemila, considerava una chimera benefica poter ottenere tremila. Significa che, quando il contesto è taccagno, siamo i primi a darci dei limiti, a mantenerci in un confine accettabile. Ma accettabile per chi? Utile a chi?
I confini non sono assoluti, ma il prodotto di un acculturamento, di una persuasione, di un’abitudine. I confini sono un’opinione, dipendono sempre da dove li si guarda, da come ci hanno abituato a considerarli. Il confine fra desiderio e bisogno è sottile e chiede una valutazione continua. Per questo, prima di precipitarsi sul Bf sarebbe meglio dirsi non «Lo voglio», ma chiedersi «Mi serve davvero?». Detto ciò, non confesserò mai che cosa c’è nella mia scarpiera.

 

mariangela.mianiti@gmail.com

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