Visioni

Il bassotto di Todd Solondz

Il bassotto di Todd  Solondz

Festival Al Sundance presentato il nuovo lungometraggio del regista americano, Wiener-Dog. Verità compassione, amore e la loro (im)possibilità sono al cuore del suo cinema, e nel film usa la presenza del cagnolino quasi come un termometro.

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 25 gennaio 2016

Una via di mezzo tra Au Hazard Balthazar di Robert Bresson e la popolare commedia canina Benji. Così , emergendo a malapena da un parca gigante, la voce flebile e stridula di sempre, Todd Solondz ha descritto al pubblico dell’Eccles il suo nuovo film, Wiener-Dog. Ventun anni dopo il suo debutto qui al festival, con Welcome to the Dollhouse (che vinse l’edizione 1995) Solondz torna a Park City con un’altra delle sue tragicommedie limpidissime – un delicato, orrorifico, carveriano, inanellarsi di racconti filmati, accomunati dalla presenza ricorrente di un bassotto.

Figura unica nella scena indipendente americana, per la temerarietà e l’empatia del suo sguardo (“il cervello di cinema più originale e affilato sulla piazza”, lo ha definito Ellen Burstyn, una delle protagoniste del film), Solondz è considerato radioattivo dai tempi Happiness. Nelle settimane che hanno preceduto la proiezione di Wiener-Dog, a Hollywood girava voce che questo fosse un film più conciliato, meno “disturbante”. Ma il fatto che non si parli di pedofilia o di ossessivi masturbatori solitari non significa che la sublime combinazione di crudeltà e tenerezza che rende così speciale il lavoro di questo autore non si nasconda dietro alla fotografia pastello di Ed Lachman, in questi quadretti di provincia del New Jersey.

“Verità, compassione e amore sono i valori della nostra famiglia”, spiega Julie Delpy al suo bambino, dopo averlo imbottito di bugie, terrorizzato con storie di barboncini e scoiattoli stuprati e avergli eutanasizzato il bassotto, Wiener -Dog. “Allora la morte è una bella cosa”, conclude il ragazzino, guardando la mamma con occhio incantato. Ha già capito tutto…Verità, compassione, amore, e la loro (im)possibilità sono al cuore del cinema di Solondz che, nel film, usa la presenza indifesa, ieratica a un po’ grottesca del cagnolino a forma di salsiccia (wiener è il wurstel), quasi come un termometro. “ Sono cresciuto in mezzo ai cani. Ne abbiamo avuti molti, uno dopo l’altro. In casa nostra duravano a lungo…E’ stata la mia prima lezione di mortalità”, ha detto il regista dopo la proiezione di venerdì sera.

Il primo racconto del film, che si apre con una citazione diretta da Childhood, di Richard Linklater, è ambientato in una famiglia benestante, il cui padre (il drammaturgo chicagoano Tracy Letts) porta un bassotto al suo bimbo da poco sopravvissuto a un cancro. Tra i due nasce un amore immediato, che sfocia in una danza con nuvole di piume alla Zero En Conduite e in un mare di diarrea nel soggiorno di casa. Dato per morto sul tavolo del veterinario, Wiener-Dog resuscita grazie all’intraprendenza di un’infermiera, Dawn Wiener, che si chiama come la protagonista di Welcome to the Dollhouse ma è interpretata da Greta Gerwig (invece che da Heather Matarazzo).

Insieme a Dawn, torna anche il suo compagno di scuola (e torturatore) Brandon (qui l’attore Kieran Culkin). I due si reincontrano in un minimart e partono, con cane, per un viaggio che li porta nella casa del fratello di lui, affetto dalla sindrome di Down. E lì il cane passa nuovamente di mano. Ma è davvero altruismo? Solondz non ci dà tregua.
E dopo l’ammicco a Linklater, evoca Tarantino con un “intermezzo” su musiche western (The Ballad of Wiener Dog, composta appositamente) in cui l’ineffabile bassotto –su sfondi diversi- continua la sua epica ricerca per una casa sicura (verità compassione e amore..).

Il film scorre in un crescendo i cui gli episodi non sono nemmeno più narrativamente legati uno all’altro. In quello più esplicitamente autobiografico, con Danny De Vito, nel ruolo di un professore di cinema a New York (è l’occupazione di Solondz quando non gira), il bassotto –che si fa poco a poco una figura sempre più periferica, quasi uno sguardo – diventa un cane bomba. Mentre nell’ultimo, in cui si chiama Cancro, è testimone dell’incontro lancinante tra una ricca nonna malata (Burstyn) e la patetica nipote (Zosia Mamet), venuta di nuovo a spillar soldi – non per droga, questa volta, ma per finanziare il pseudoartista di cui si è malauguratamente innamorata.

Quando la vecchia signora, rimasta sola, esce in giardino, si trova circondata da una serie di ragazzine con lunghi capelli rossi…Ma lo scarto fantasy dura solo un attimo. Cut e… no, il bassotto non ha trovato una casa. La cifra umana torna ad essere l’indifferenza.

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