La vicenda inizia a fine anni Novanta, a Firenze. Una studentessa presenta la sua tesi di laurea. Uno studio nel quale individua un composto efficace per la diagnosi e la cura della sclerosi multipla. Uno studio grazie al quale quattro docenti dell’università di Firenze otterranno un brevetto. Lei, la studentessa, non apparirà tra gli autori e dunque tra i beneficiari del brevetto. Nonostante abbia ampiamente lavorato, probabilmente a titolo gratuito, per ottenere i dati che hanno condotto al brevetto. Solo pochi giorni fa, dopo una battaglia legale lunga più di dieci anni, la giustizia ha stabilito che la studentessa riceverà un lauto risarcimento.

UNA VICENDA paradigmatica, quella dello sfruttamento del lavoro degli studenti, perché con la progressiva sottomissione dell’accademia alle richieste del «mondo del lavoro» si è avuta la proliferazione di stages e tirocini curriculari. Praticamente, un regalo ad aziende ed istituzioni pubbliche in crisi (università in primis) che possono così contare su un continuo ricambio di manodopera gratuita, priva di diritti e tendenzialmente docile. Docile perché la logica dei tirocini universitari, che soprattutto nelle facoltà scientifiche consistono di fatto nello svolgimento del proprio lavoro di tesi, è assolutamente interna a quella che viene da più parti definita come una vera e propria «economia della speranza».

LA SPERANZA, per lo studente universitario al termine della propria carriera è proprio quella che il tirocinio, il lavoro gratuito e servile, possa costituire un sacrificio necessario, nella fase di passaggio dall’università al mondo del lavoro. Un sacrificio volto a iniziare a ritagliarsi un proprio piccolo spazio. A fare esperienza, a farsi conoscere. Nello specifico della carriera accademica, magari a trovare da subito un barone cui offrirsi anima e corpo. Perché è consapevolezza diffusa il fatto che all’università, in un contesto di generale espulsione del personale precario, tutto quel che resta è in effetti «puntare sul cavallo giusto». Offrirsi a quel particolare docente che si dice disponga dei mezzi economici e delle influenze adatte per offrire una prospettiva almeno sul medio periodo. E chissà, magari dopo anni ed anni di precarietà, sarà proprio quel docente a far si che si rientrerà in quel 6% degli attuali assegnisti che riusciranno ad ottenere un posto di lavoro a tempo indeterminato. Perché di fatto l’instaurazione di un rapporto feudale col barone di turno costituisce l’unica via disponibile per proseguire nella carriera universitaria.

Gli accordi informali di divisione delle risorse e delle posizioni, costituiscono il principale sistema di regolazione dei flussi lavorativi nell’accademia. E i docenti, tanto più sono potenti, quanto più sono gli attuatori della disciplina del lavoro gratuito. Il «baronato» non è una recrudescenza di un sistema feudale passato.

L’ISTITUZIONALIZZAZIONE del lavoro gratuito in ambito accademico di fatto è, almeno in parte, l’assunzione a livello normativo di una prassi già ampiamente diffusa, che è appunto quella di offrire i propri servizi al barone di turno per poter procedere nella carriera accademica. È il riconoscimento definitivo della mitologica figura del «portaborse». Il giovane che da ancor prima di laurearsi si offre come tuttofare al servizio di un docente. Una figura che nella nostra accademia è sempre esistita. E che ora, semplicemente, viene assunta a livello formale. E se parliamo di un rapporto di servitù, l’espropriazione dei frutti del proprio lavoro senza alcun compenso è condizione necessaria e conseguenza ovvia di questo rapporto. Nulla di strano.

QUEL CHE È ACCADUTO a Firenze non è un caso isolato. In molte situazioni è una prassi. Del resto, un tesista, un tirocinante, non è riconosciuto come un lavoratore. Si sta formando, nonostante svolga all’atto pratico tutte le ricerche. E dunque, perché dovrebbero in qualche modo comparire sulla pubblicazione del proprio tutor? Questa è la cruda realtà dei nostri atenei. Mentre il governo getta fumo negli occhi parlando di meritocrazia, e i potentati accademici continuano ad attestarsi su una difesa corporativa di una presunta autonomia che si è di fatto tradotta nell’autonomia di amministrare l’accademia come fosse un bene privato. Studenti e precari compresi.