Il ballo che va verso l’ignoto
Scaffale «Sul tango. L’improvvisazione intima» di Davide Sparti, edito da Il Mulino. Un libro che rompe tutti gli stereotipi legati a questa danza che, in realtà, è una chance che due sconosciuti si giocano per entrare nel futuro
Scaffale «Sul tango. L’improvvisazione intima» di Davide Sparti, edito da Il Mulino. Un libro che rompe tutti gli stereotipi legati a questa danza che, in realtà, è una chance che due sconosciuti si giocano per entrare nel futuro
Non sono molti i luoghi dove è possibile vedere ad occhio nudo cosa sia un legame sociale, cioè l’incontro fra individui che si riconoscono, entrano in contatto, danno vita a qualcosa e perciò si trasformano pur restando sé stessi. Uno di questi luoghi è la milonga, lo spazio notturno in cui filano in senso antiorario le coppie che ballano il tango. Non lo direbbe chi a quel ballo così carico di fascino esotico ma anche di vetusti stereotipi (la sensualità femminile, la iattanza maschile, una severità di figure che potrebbe sembrare anacronistica) si accosti dall’esterno e magari vada in cerca di una partitura musicale o coreografica, di una grammatica codificata che sia valida una volta per sempre.
Chi ad esempio apra youtube sulla pagina in cui Carlos Gavito e Marcela Duran eseguono Evaristo Carriego, un motivo fra i più classici, non si trova al cospetto del tango ma, semmai, a una stupenda esibizione o rievocazione di esso, vale a dire che assiste a qualcosa che ne riassume il repertorio, e ai massimi livelli di esecuzione tecnica, ma lo nega paradossalmente in essenza. Nega in altri termini la natura di un ballo che esiste solo en situation e nel momento in cui due individui, per lo più sconosciuti, si incontrano, accettano la chance di un ballo (tre o quattro brani di una tanda, l’unità di misura di una coppia), e si abbracciano aderendo lievemente, vicendevolmente, alle mani e al dorso.
L’abbraccio è il dato primordiale di un ballo incentrato sulla improvvisazione dove la coppia allegorizza una unione e dunque un processo di reciproca trasformazione in vista di un senso: questa è la tesi di un bellissimo libro, Sul tango. L’improvvisazione intima (Il Mulino, «Intersezioni», pp. 221, euro 16), appena pubblicato da Davide Sparti, epistemologo e musicologo dell’Università di Siena, che del tango ha lunga e diretta esperienza di praticante.
L’opera di Sparti sta all’incrocio di più ambiti disciplinari (filosofia, sociologia, storia e memoria autobiografica) e propone una ermeneutica: diviso in cinque capitoli, il volume è peraltro suffragato da una ricca bibliografia in appendice. Apre con la storia di un ballo la cui vicenda è orecchiata o male intesa nel senso comune perché se ancora vige la definizione di «tango argentino», se è vero che la sua prima radice sta nei bassifondi sottoproletari di Buenos Aires o Montevideo, non è vero, viceversa, che il tango mantenga un inerte profilo identitario: vi convivono infatti elementi africani (qualcuno ha detto che la parola «tango» rinvia alla risonanza di un tamburo) con effetti di ritorno prettamente europei, per il semplice fatto che il tango venne consacrato in Europa, a Parigi, all’incirca un secolo fa prima di tornare alla terra d’origine carico di suggestioni e di un prestigio sociale che altrimenti non avrebbe avuto dato il sospetto delle classi dirigenti locali per una danza venuta al mondo, proverbialmente, fra marginali, malavitosi e prostitute.
Il tango è perciò un’arte diasporica e non è un caso che il tema dell’esilio come quello dell’amore impedito o impossibile segnino i suoi classici, a partire da quelli eseguiti da Carlos Gardel, ormai di universale risonanza (per esempio Caminito, Volver o El dia que me quieras: sia detto per inciso, uscì da Einaudi nel 2002 una cospicua antologia di testi, Tango, a cura di Paolo Collo e Ernesto Franco, ma il libro è da tempo introvabile e meriterebbe una ristampa). Nemmeno è un caso che il tango (compreso il cosiddetto tango nuevo e i suoi classici recenti, su tutti Hugo Diaz) abbia confermato la natura diasporica imponendosi via via come pratica universale.
Al riguardo, se il secondo capitolo del libro tratta i processi psicofisici di iniziazione (smarcando il tango dalla fissità coreografica di altri balli e sottolineandone l’agire generativo e anzi «co-generativo») è nei due capitoli centrali (Improvvisa azione e Minuscoli istanti di eternità) che Sparti propone una ermeneutica che ormeggia la categoria di Gilles Deleuze circa qualcosa che sia capace di produrre differenze nella ripetizione. Data la sua natura generativa e anti-coreografica, il tango presenta una morfologia e una grammatica (di posture, passi, figure) relativamente rigide ma dispone altresì di una sintassi illimitatamente aperta.
Chi si incontra e comincia a ballare non sa nulla a priori della forma che prenderà la sua danza, vale a dire che i due autori, i due corpi, sono sempre tutt’uno con l’opera che stanno intanto costruendo o fallendo: muovendo da poche convenzioni e certezze di base, i due ballerini si incontrano per costruire qualcosa che, pur essendo tango e come tale riconoscibile, di volta in volta risulta inedito e impensato. In ciò pari al jazz, il tango è improvvisazione in atto, un ballo che non sembra avere mai nulla né prima né dopo la sua fisica e fugace esecuzione. Ogni tango, ogni atto del ballare il tango qui-e-ora, viene da un ignoto e va verso un ignoto, come fosse un tracciante luminoso o una meteorite: «La dimensione dell’ignoto può essere ricondotta al principio di contingenza, riassumibile nell’espressione «è così, ma anche altrimenti» nel senso che ogni interazione avrebbe potuto svilupparsi altrimenti o diversamente dall’atteso. Benché nel tango molte risposte e sequenze siano apprese e frutto di addestramento, la singolarità di ogni incontro apre un potenziale di novità, estraneità e incommensurabilità. Per questo il tango è una pratica in cui chi balla, pur non detenendo le condizioni dell’esercizio della pratica stessa, si consegna consapevolmente a esse, gestendo il passaggio dal noto all’ignoto».
Nello spazio-tempo del ballo Sparti legge un incontro che, grazie alla reciprocità della improvvisazione (dove confluiscono sintonia, coesione, dialogo cinetico), istituisce un microcosmo comunitario, ciò che Garcia Lorca chiamava el duende, una esperienza difficile da comprendere per i non iniziati, qualcosa che vibrando dà la facoltà di possedere nello stesso momento in cui si è posseduti. Lo sappia o no, chi balla il tango cerca, per un tramite duale, un senso alla propria esperienza e, però, quale senso?
Nell’ultimo capitolo del libro (scandito in prima persona alla maniera di Loic Wacquant che per intendere davvero la boxe si fece pugile, conobbe le dinamiche reali del gym nei ghetti e poi scrisse Anima e corpo, DeriveApprodi 2002), Sparti ricorre alla pratica personale, riflettendo sulla declinazione singolare/plurale del tango, sul connubio sempre inedito di anonimato/complicità che ogni coppia conosce.
All’autore viene in mente il sorriso di soddisfazione che può affiorare per un attimo sul volto dei due ballerini alla fine di una tanda. Appunto, che cos’è quel sorriso, a cosa allude, che cosa significa? Il severissimo Adorno direbbe forse che quella è una falsa conciliazione e che, nel mondo così com’è, un’arte che sia davvero tale non potrebbe mai esprimere gioia e produrre piacere. I filistei e i moralisti aggiungerebbero meno che mai tra quei suoni volentieri nostalgici, i tacchi a spillo, i cenni iniziatici, l’elegante sussiego e talvolta i redivivi machos e femmes fatales. Ma aggiunge Sparti: «Tuttavia, citando l’amato Stendhal, Adorno insiste sulla circostanza che l’arte, pur non potendo essere felice in sé, può (deve?) incarnare la promessa di felicità (in un mondo infelice). Ecco, la speranza di scoprire una affinità elettiva con qualcuno, questa promessa che resta costitutivamente a venire, irraggiungibile nel suo sogno di rendere possibile l’impossibile, definisce il motivo ultimo di chi pratica il tango».
Stendhal diceva di una promesse de bonheur, un secolo più tardi il nostro Fortini avrebbe parlato, nel mondo che nega l’esperienza della forma alla stragrande maggioranza degli esseri umani, del privilegio di esperire o di creare una forma. Impensabile al di fuori del legame sociale, qualunque essa sia, tra le pagine di un libro o nella mezza luce di una milonga.
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