Iggy Pop o dell’importanza di essere (non sempre) perdente
Note sparse «Every Loser» si candida a nuovo - e forse ancora provvisorio - testamento del 76enne rocker americano
Note sparse «Every Loser» si candida a nuovo - e forse ancora provvisorio - testamento del 76enne rocker americano
«Iggy chi, quello che ha collaborato con i Måneskin?», potrebbe chiedersi il pubblico post-millennial che del leggendario ex Stooges conosce a malapena l’eco. Lo iato generazionale degli ultimi decenni, inviluppato nell’irrisolta sciarada «x, y, z», libera caselle che sembrano fatte apposta per essere occupate dagli epiloghi discografici dei veterani, i quali danno vita a quella mappatura musicale dell’invecchiamento teorizzata dal sociologo Andy Bennett. In questa rete intessuta da artisti e ascoltatori, il percorso recente di Iggy Pop diventa il tracciato che ci riconduce alla figura del loser, l’antieroe nato ribelle punk e ritrovatosi disadattato nell’età del grunge, quando il picco di testosterone degli anni Ottanta aveva lasciato il campo alla visione alternativa della virilità cantata da gente come Beck e Billy Corgan.
GIOVANE una sola volta ma vecchio a più riprese, oggi James Newell Osterberg Jr. espone sul suo stesso corpo la senescenza del perdente, il cui annunciato ritiro è stato a sua volta ritirato. Un primo addio nel 2016 con Post Pop Depression, emendato tre anni dopo da Free, e troppo apocrifo per essere credibile come testamento. «My mind is on fire when I ought to retire», ammette Iggy stesso in Frenzy, apripista di Every Loser (Atlantic/Gold Tooth), ennesimo canto del cigno e personale proposta di virilità alternativa. Sul torso nudo, rughe esibite come muscoli, mentre la voce percorre discese per sfruttare il registro più basso, laddove si può ancora ruggire. Assistito dal produttore Andrew Watt, responsabile di alcune parti pianistiche molto ben congegnate, l’iguana del rock ritrova un solido terreno sonoro su cui cantare testi di ritrovato spessore, con un piglio già svelato dai due singoli Frenzy e Strung-Out Johnny, ispirati proprio a quel grunge che dei loser fu autentico inno. Conseguenza inevitabile, a leggere il dream team che l’accompagna: Dave Navarro, Stone Gossard e Josh Klinghoffer alle chitarre; Duff McKagan e Eric Avery al basso; Travis Barker, Chad Smith e il compianto Taylor Hawkins alla batteria.
Sul torso nudo, rughe esibite come muscoli, mentre la voce percorre discese per sfruttare il registro più basso, laddove si può ancora ruggire.
IL DECLIVIO VOCALE corre parallelo a quello emotivo, andando a scavare tra i ricordi del vecchio eroinomane, narrati nella stessa Strung-Out Johnny e — non senza qualche nostalgia — in Modern Day Rip-Off, due momenti topici dell’album che riportano in voga lo stile Stooges. Il post punk degli anni Ottanta è invece la cifra stilistica di Comments, il cui verso «Every loser needs a bit of joy» dà il titolo all’album. Ma di gioia ce n’è ben poca, nelle undici tracce chiuse dal j’accuse al vetriolo di The Regency, rivolto contro l’industria dell’entertainment. Finanche le ballad trasudano uggia, come nella cinica denuncia del cambiamento climatico di New Atlantis e All The Way Down, impreziosita dal sax post mortem dell’amico Steve Mackay.
Titolo eloquente, quest’ultimo, giacché si va davvero fino in fondo tanto con la voce quanto con il cuore, al punto di ammettere — in Morning Show — la fatica di un 76enne stanco di reggere il suo stesso personaggio, eppur pronto a infiniti addii, finché c’è una generazione per la quale essere meraviglioso perdente.
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