Idoli, quando dio era una dea
la mostra oli, il potere dell'immagine" curata dalla Fondazione Giancarlo Ligabue a Palazzo Loredan a Venezia, più di cento statuette ritrovate in Occidente e in Oriente
la mostra oli, il potere dell'immagine" curata dalla Fondazione Giancarlo Ligabue a Palazzo Loredan a Venezia, più di cento statuette ritrovate in Occidente e in Oriente
Nel mondo contemporaneo gli idoli si sprecano. Li hanno creati il cinema, la musica, le rivoluzioni, il calcio, buon ultimo il web. Portano un nome e un cognome, sono fatti di carne e ossa, molti di loro non lasceranno traccia nella storia dell’umanità. Gli idoli del mondo antico, dalla fine del quarto al secondo millennio avanti Cristo, nome e cognome non lo avevano, la loro carne e le loro ossa erano pietra. Forse per questo sanno ancora esercitare quel Potere dell’immagine che fa da sottotitolo alla mostra Idoli, curata dalla Fondazione Giancarlo Ligabue e ospitata fino al 20 gennaio negli spazi del veneziano Palazzo Loredan. Le cento piccole sculture lungo l’itinerario espositivo costituiscono altrettanti esempi di come, allora, i popoli affidassero alla pietra il concetto metafisico del Divino. E di come queste incarnazioni fossero simili, se non uguali, in regioni del pianeta separate da distanze che solo in seguito sarebbero divenute colmabili. Quando, tra il 3300 e il 3000 avanti Cristo, la rivoluzione urbana porterà alla nascita delle prime città e produrrà radicali trasformazioni in campo sociale ed economico, gli idoli muteranno forme, evolvendosi fino a raggiungere sembianze ascrivibili a figure maschili e femminili, comunque prive di una singola identità. È un quadro complesso, dentro il quale si intrecciarono culture che inizieranno a fare conoscenza e scambi reciproci con la nascita dei commerci. Un quadro le cui dimensioni incorniciano Sardegna, Spagna, Cicladi, Cipro, Anatolia, Egitto, Arabia, Asia Occidentale, Siria -Mesopotamia, Iran, Valle dell’Indo. In principio Dio era donna. Lo scriveva in uno dei suoi ultimi studi il paleontologo Giancarlo Ligabue «L’ipotesi che il Dio Padre di tutte le religioni monoteiste fosse stato in origine una Dea Madre iniziò a delinearsi dopo la scoperta delle prime veneri paleolitiche, dove il corpo femminile era sentito come centro di forza divina. Proprio in quel momento, tra paleolitico medio e superiore, si pensa si siano verificati nello spirito e nella coscienza dell’uomo determinati mutamenti di struttura della psiche. Alla fase dell’inconsapevolezza si contrappone una sorta di pulsione che gli specialisti attribuiscono oggi a un rapido evolvere della coscienza. Nasce un concetto di religiosità. L’uomo aveva scoperto di avere un’anima». Giancarlo Ligabue, scomparso quattro anni orsono, è certamente meno famoso del rocker Luciano (a proposito di idoli moderni) e del pittore Antonio. Imprenditore della multinazionale del catering Ligabue Group, ereditata dal padre Anacleto, dopo aver conseguito un dottorato di ricerca presso la Sorbona dedicò buona parte della vita e del patrimonio personale a oltre centotrenta spedizioni archeologiche. Suo, una cinquantina di anni fa, il celebre ritrovamento di un giacimento di dinosauri a Gadoufaoua, deserto del Téneré. La collezione che via via andò costruendo, con l’acquisto di ogni reperto nel pieno rispetto della legalità, è considerata una delle collezioni private di maggior pregio. Dodici delle cento sculture proposte allo sguardo del pubblico le appartengono. Steeatopigìa: il dizionario ne dà una definizione assai cruda: spiccata lordosi lombare e tendenza ad accumulare adipe sui glutei e sulle cosce, tipica delle donne di alcune etnie africane. Se Dio Padre era in principio donna, la Grande Madre, annota Annie Caubet, curatrice di Idoli «… è l’onnipresente figura steatopigia ereditata da una lunga tradizione neolitica. Nuda e sontuosamente voluttuosa, occupò da sola lo scenario iconografico di gran parte del mondo antico fino all’arrivo di nuove immagini alla fine del quarto millennio a.C. In mostra sono presenti esemplari provenienti da Sardegna, Cicladi, Cipro e Arabia. I volumi delle diverse parti del corpo, taluni accentuati, altri ridotti, ma sempre attentamente equilibrati, danno vita a un insieme dinamico e potente». Con l’avvento della rivoluzione urbana, prosegue Caubet «… i concetti metafisici continuarono a essere incarnati in immagini tridimensionali, ma l’ideale steatopigio fu abbandonato a favore di visioni del tutto nuove». È allora che la Dea Madre assume forma di violino, diventa cruciforme, prende le sembianze di un busto sormontato da occhi sproporzionati e cavi. Di nuovo Caubet «Si affermarono due tendenze opposte e complementari: una portata all’astrazione e alla schematizzazione estrema; l’altra realistica, ma stemperata da una tendenza all’idealizzazione. Entrambe erano spesso adottate contemporaneamente». E sottolinea «… Le immagini astratte non sono tali nel senso dell’estetica del Novecento. Piuttosto sono visioni schematiche del corpo, in cui alcune parti risultano assenti e altre accentuate…». Dal realismo idealizzante diffusosi nelle Cicladi scaturirono le figure incinte distese. Ed è davanti a loro che lo stupore già suscitato dalla somiglianza della Grande Madre alle donne dei dipinti di Fernando Botero si accentua. Il lungo collo e il volto privo di occhi, il naso sottile appena abbozzato, rimandano subito alle sculture di Amedeo Modigliani. Poco oltre, dall’Egitto del quinto millennio a.C., la figura maschile con barba, scolpita in avorio, evoca le opere di Marino Marini; quella maschile stante, Egitto del terzo millennio, gli uomini di Alberto Giacometti. Plagio in nome dell’arte, oppure eterno affiorare delle pulsioni ancestrali citate da Ligabue? Meravigliosa la sezione Dall’Iran all’Oxus, civiltà dell’Età del Bronzo sviluppatasi dal 2300 al 1700 a.C. Le statuette della Dama dell’Oxus erano realizzate assemblando pietre differenti per tipo e colore. Gli scavi in Iran hanno ridato luce alla Dama con il corpo di uccello; alla Dama triangolare, stante, seduta, con acconciatura alta, e soprattutto alla Venere di Ligabue, dal nome del suo scopritore. Alta appena undici centimetri e larga tredici, unica tra le Dame a indossare una veste levigata, è seduta, il busto eretto, le gambe ripiegate sotto il mantello in clorite scura che nasconde il corpo. La testa in calcare chiaro, naso e labbra modellati finemente, è sormontata da un’acconciatura raccolta in un lungo boccolo. Magnifici, ma privi della serena compostezza che la Venere emana, sono il Re Sacerdote, l’Uomo Toro, lo Sfregiato. Esprimono il potere terreno, la capacità di combattere a fianco degli dei, la forza derivata dalla doppia identità di uomini e animali. Eppure manca loro il dono che indusse l’umanità a fare della Dea Madre il primo Dio sulla terra. Il dono della procreazione, compito affidato dalla natura alla donna in un tempo già allora troppo remoto per trovarne ricordo nella memoria.
Il lago degli idoli, i ritrovamenti in Italia
Chissà chi la trovò. Magari un abitante di Stia, incantevole frazione di Pratovecchio circondata dai boschi selvaggi del Parco della Foreste Casentinesi, nell’Aretino. O forse un cacciatore in cerca di selvaggina. O ancora, secondo il copione di tante scoperte casuali, un gruppo di bambini che giocavano da quelle parti. A chiunque sia toccato in sorte, il ritrovamento avvenuto nel maggio 1838 di una statuetta etrusca sulle sponde del Lago Ciliegieta, poco distante dalla sorgente di Capo d’Arno, segnò una tappa importante sulla strada della conoscenza di una civiltà mai abbastanza indagata. La statuetta in bronzo, che raffigurava Ercole, entusiasmò un’associazione locale di archeologi in erba, al punto da indurli a prosciugare il lago tramite sterro. Sul fondo giaceva una stipe votiva con un ricchissimo corredo di offerte, insieme ad altre seicentocinquanta statuette, sempre in bronzo. Da allora in poi, lo specchio di acqua dolce prese il nome di Lago degli Idoli. Tuttavia lo sterro, opera di dilettanti, danneggiò la stratigrafia del sito, in particolare i livelli che riguardavano la presenza etrusca, accertata dal VI al III secolo a.C. nel corso di una successiva campagna di scavi condotta dal 2003 al 2007. Durante la stessa campagna, che coinvolse tremila e seicento metri quadri di territorio intorno alla conca lacustre, furono recuperati duecento bronzetti antropomorfi, zoomorfi e votivi; migliaia di frammenti di punte di armi da lancio in ferro, dieci strumenti da lavoro in selce, svariati cocci di ceramiche, tre lamine in oro e novemila rudimentali pezzi di bronzo che venivano utilizzati come moneta. I reperti del primo e del secondo scavo sono patrimonio del Museo di Bibbiena, del Louvre, del British Museum, della National Gallery di Baltimora e del Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo. Su Raiplay è disponibile Neverlake, un film horror italiano. Il Lago degli Idoli è al centro di una trama ‘de paura’ sconclusionata e senza alcun senso. Gli amanti del genere si astengano dalla visione. Significativa anche in Italia la presenza delle statue stele, monumenti megalitici datati tra la fine del quarto millennio a.C. e gli albori del terzo. Sulla nostra penisola ne sono venute alla luce circa cento e quaranta: sessantatré, le più notevoli, in Lunigiana, custodite nelle sale del Museo di Pontremoli; trenta a Castelluccio dei Sauri, in Puglia, e trenta in Sardegna. Le otto statue stele di Arco, Trento, sette in marmo e una in pietra locale, secondo millennio a.C., furono rinvenute tra la fine del 1989 e l’estate dell’anno successivo. La maggiore raggiunge un’altezza di due metri e quindici centimetri. Le stele, maschili, femminili e asessuate, presentano decori che rimandano a ornamenti, vestiario, pugnali di forma triangolare. La splendida stele di Vado all’Arancio, in arenaria, fu ritrovata da un contadino nel 1955, a poca distanza dal comune grossetano di Cura Nuova. L’uomo, pur non capendone il valore, la conservò per anni nel pollaio, e solo in seguito decise di affidarla al Museo archeologico del capoluogo. Rimane non del tutto chiarita la funzione di questi particolari monumenti, i cui esemplari ammontano in Europa a settecento, distribuiti nel Caucaso; in Romania, Ucraina, Ungheria e nell’arco alpino svizzero. Una delle ipotesi più accreditate è che fossero monumenti funerari in onore di personaggi eminenti, suffragata dall’interpretazione delle scritte onomastiche, di carattere celebrativo. Se ne distinguono due tipologie: figura virile, armata di un pugnale triangolare, a volte inserito nel fodero e sostenuto da una cintura a bandoliera, altre soltanto scolpito sul corpo e posto trasversalmente; figura femminile, con la rappresentazione dei seni e delle braccia distese verso il ventre. Molte le varianti su questo impianto iconografico. Nel giugno del 2004, i lavori di ristrutturazione di un edificio del ’400 a Manzano, Val di Gresta, provincia di Trento, restituirono un idolo in pietra del quarto millennio. Simile a quelli esposti alla mostra veneziana, il volto ‘a civetta’ ricorda le sculture di Modigliani. L’idolo, subito e lodevolmente consegnato dal proprietario dell’edificio alla Soprintendenza alle Belle Arti, è stato collocato negli ambienti dello Spazio Archeologico Sotterraneo del capoluogo trentino. La Liguria è patria della cosiddetta Venere dei Balzi Rossi, vale a dire una Venere paleolitica steotipigia, la Dea Madre, risalente al Paleolitico Superiore 30/ 11000 anni fa. In realtà, dentro le grotte dei Balzi Rossi, nella frazione di Grimaldi di Ventimiglia, si nascondevano ben quindici statuine di steatite, alte poco meno di cinque centimetri. La Venere incinta è rappresentata nuda, gambe e braccia appena abbozzate, testa senza alcun lineamento, glutei e seni enormi Scoperte nell’ultimo quarto dell’Ottocento, le immagini andarono in parte disperse per insipienza, o complicità con i trafficanti di materiali antichi. Tre copie fanno parte delle collezioni del Museo di Preistoria dei Balzi Rossi, alcuni originali si trovano al Museo Nazionale di Archeologia, allestito all’interno del castello di Saint Germain en Laye, nella regione dell’Île de France, venticinque chilometri da Parigi. Curiose coincidenze archeologiche in Emilia Romagna, dove una Dea Madre, simbolo della fertilità, è affiorata nel marzo del 2006 da una sepoltura del quinto millennio a Vicofertile, frazione di Parma. La piccola statua, intatta, apparteneva al corredo funerario di una donna ed era stata posta davanti al viso della defunta, sopra il braccio sinistro. Lunga circa venti centimetri, è costituita da un impasto di ceramica scura cotta in modo approssimativo, indicando così che era stata realizzata solo a scopo funerario. La Dea è seduta, volto con occhi a fessura e naso pronunciato, capelli lunghi. Il busto sottile evidenzia i seni triangolari; le braccia sono piegate e staccate dal busto, con le mani che si congiungono alla vita. Massiccia la parte inferiore, come si addice a questa tipologia di figura.
Campo Santo Stefano, i capolavori del Tintoretto
Gennaio è il mese bello di Venezia. I turisti diventano presenze rare, un silenzio quasi incredibile regna e, ancor più incredibile, camminando si sentono risuonare i propri passi. Gennaio è il mese bello di Campo Santo Stefano, uno dei più grandi della città. Intorno al monumento di Niccolò Tommaseo, i palazzi e le chiese compongono una scenografia di impeccabile eleganza, dove non risultano per nulla fuori posto un piccolo hotel e un paio di caffè. Il rinascimentale Palazzo Loredan, che ospita la mostra, è sede dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti. Nell’androne, la vera di pozzo del ’400 e le arcate in pietra d’Istria su capitelli testimoniano lo stile gotico dell’edificio prima della sua ristrutturazione. L’atrio è composto da due archi ai lati, tre arcate minori al centro e due scaloni articolati in altrettante rampe che confluiscono nella scala monumentale. Il soffitto decorato del mezzanino, fine ’500, si deve ad Antonio Aliense, Sante Peranda e Iacopo Palma il Giovane. Nella sala delle adunanze spicca il portale di Giacomo Grapiglia. Sull’architrave, una scultura di Girolamo Campagna e una tela del Tintoretto, Madonna col bambino e quattro senatori. Al piano nobile, due sale sono arricchite dagli stucchi settecenteschi di Giuseppe Ferrari. Palazzo Cavalli Franchetti, il cui retro, circondato da un fitto giardino, affaccia sul Campo e la facciata principale sul Canal Grande, fu costruito nella seconda metà del ’400 dalla famiglia patrizia dei Marcello. Quattro secoli dopo venne acquistato dal barone Raimondo Franchetti, padre di quel Giorgio cui si deve il restauro della Ca’ d’Oro. Su incarico di Franchetti, l’architetto Camillo Boito ‘rivisitò’ il palazzo in stile neogotico. Il segno di questi radicali restauri è particolarmente netto negli interni, con il famoso scalone e il profluvio di marmi, ferro battuto, lampade, pitture ornamentali, arredi di stampo eclettico. Nel palazzo, di proprietà dell’Istituto Veneto, si svolgono durante l’anno numerose manifestazioni culturali. Gioiello della chiesa di Santo Stefano, XIII/ XV secolo, dall’inconfondibile campanile pendente, è il portale del 1442, opera di Bartolomeo Bon. L’interno a tre navate su colonne in marmo bianco e rosso con capitelli dorati, custodisce la lastra tombale del doge Francesco Morosini e quattro lavori del Tintoretto: Resurrezione, Ultima Cena, Cristo lava i piedi agli apostoli, Orazione nell’orto. Palazzo Pisani, sporto sul rio del Santissimo, accoglie il Conservatorio Benedetto Marcello. Per restare in tema di musica, quattro passi portano al Museo Arte Musica, nella chiesa sconsacrata di San Maurizio, San Marco 2603. Qui, accompagnati da un’evocativa colonna sonora, si visita la collezione ‘Antonio Vivaldi e il suo tempo’, viaggio nella liuteria veneziana del ’700 attraverso gli strumenti a corda realizzati dai maestri Amati, Guadagnini e Goffriller. Molto ricco il music shop. Anche in piena stagione turistica, Arte Musica rappresenta un’autentica isola di quiete.
info
Idoli. Il potere dell’immagine, Palazzo Loredan, Campo Santo Stefano, Venezia, fino al 20 gennaio. Info, fondazioneligabue.it. Le cento sculture provengono da numerose collezioni pubbliche e private europee. Prestatori italiani il Museo Archeologico di Padova, il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, la Congregazione Armena Mecharista di Venezia. Il catalogo edito da Skira, 56 euro, duecento immagini a colori, è diviso in capitoli che seguono il percorso della mostra. Ciascun capitolo è introdotto da saggi che pur nel loro rigore scientifico risultano di buona accessibilità anche ai non addetti ai lavori
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