Al Metropolitan museum of Art (Met) di New York è in corso un’installazione speciale di arte cicladica che consta di 161 manufatti in marmo riuniti dal magnate americano Leonard Stern a partire dagli anni ’80 del Novecento. Si tratta della più ampia raccolta privata, al di fuori della Grecia, dei celebri idoli che affascinarono, tra gli altri, Modigliani e Brancusi. La mostra è il risultato di un protocollo d’intesa siglato nel 2022 tra il Met, il Ministero della cultura greco e il museo privato dell’Arte cicladica Goulandris di Atene, in base al quale l’insieme degli oggetti appartiene ora nominalmente allo Stato greco.

A gestire la convenzione è però un organismo appositamente creato – l’Hellenic Ancient Culture Institute (Haci), del quale fanno parte il presidente del Museo Goulandris, con due membri della stessa famiglia Goulandris, e due componenti della Fondazione Leonard Stern –, alla cui autorità sono sottoposti le statuette e i vasi cicladici acquisiti dall’86enne uomo d’affari. I reperti saranno esposti al Met per un periodo che va dai 25 ai 50 anni.

«Sia il governo greco che il Met vogliono far credere che quest’accordo rappresenti una forma innovativa di rimpatrio nonché un modello per la restituzione dei Marmi del Partenone», dice al manifesto Yannis Hamilakis, docente di Archeologia e studi sulla Grecia moderna presso la Brown University di Providence (Stati Uniti). «Com’è ovvio – continua lo studioso cretese –, siamo di fronte a dichiarazioni propagandistiche. Oltre al Met, il vero beneficiario dell’operazione è infatti il Museo Goulandris di Atene, che ha esibito di recente alcune figurine cicladiche della collezione Stern e che, con tutta probabilità, accoglierà in futuro l’intera serie».

Qual è la sua opinione sull’allestimento attuale?
L’esposizione occupa uno spazio angusto nell’ala che ospita le antichità greche. I pezzi sono presentati perlopiù secondo un criterio museografico tradizionale e obsoleto, all’incirca nel modo in cui erano disposti nel salotto di Stern: nessuno sforzo è stato messo in atto per collocarli in un quadro più vasto – sociale, culturale e archeologico –, sebbene nella medesima galleria si trovino anche i materiali cicladici della collezione permanente. A dominare è la logica degli oggetti enigmatici. Ciò è fuorviante, in quanto la ragione per la quale questi reperti restano in gran parte misteriosi non risiede nella mancanza di fonti scritte o nella rarità degli scavi nelle Cicladi – come «suggerito» dal Met – ma piuttosto nell’impossibilità di determinarne l’esatta provenienza. Le sculture, infatti, non sono state riportate alla luce durante indagini scientifiche ma depredate in abitati, necropoli e siti cultuali per soddisfare la domanda di collezionisti come Stern. Questa immane razzia è la causa della distruzione del contesto archeologico del Bronzo Antico nelle Cicladi (IV – III millennio a.C., ndr).

Un’occasione persa, dunque, per informare il pubblico sui danni che il collezionismo arreca alla ricerca archeologica.
Proprio così. Generalmente gli specialisti dell’Età del Bronzo rifiutano l’approccio estetico e anacronistico che vorrebbe ricondurre gli idoli cicladici a differenti «mani» e maestri. Un metodo, utilizzato invece nell’installazione del Met, che cancella la società dell’Età del Bronzo e vanifica gli studi sui processi relativi alla produzione, all’uso e alla circolazione di queste sculture dalla biografia culturale complessa. È sufficiente sottolineare che nell’antichità le figurine potevano essere rotte intenzionalmente, e poi depositate in frammenti a scopo rituale, per comprendere quanto l’applicazione di principi estetici e astratti possa distorcere la ricostruzione storica.

La mostra sembra essere in linea con lo sfruttamento puramente economico del patrimonio archeologico attuato dal governo Mitsotakis.
Quando reperti iconici quali sono gli idoli cicladici vengono esposti in istituzioni prestigiose il loro valore finanziario aumenta, provocando ulteriori saccheggi e alimentando il mercato clandestino. Un sistema ben collaudato che coinvolge collezionisti, case d’asta e, appunto, quei musei guidati da interessi privati e plutocratici. Il governo greco è persuaso che la promozione della collezione Stern in un museo cosiddetto universale come il Met costituirà un’ottima pubblicità per il Paese. Tuttavia, considerare il patrimonio alla stregua di un prodotto di marketing ha già avuto conseguenze deleterie in Grecia e nel resto dell’area mediterranea. Anche se si accettasse per un momento la strategia commerciale rivolta al turismo di massa, occorre rimarcare che la mostra al Met diffonde colpevolmente l’idea degli idoli cicladici quali opere d’arte isolate, avulse dal loro contesto, sia antico che moderno. Nessun orizzonte culturale può aprirsi sulle isole del Mar Egeo se non c’è differenza tra un museo e una galleria d’arte della Quinta Strada a New York.

Yannis Hamilakis, foto Brown University

Il canone estetico è invece congeniale ai collezionisti. Da qui deriva non solo la scellerata collaborazione tra quest’ultimi e alcuni studiosi ma anche la commercializzazione dei falsi idoli realizzati nel secolo scorso, che corrompono il corpus scientifico delle figurine.
A tale proposito va ricordato che in occasione dell’esposizione di un lotto della collezione Stern al Museo Goulandris di Atene, Christos Doumas – docente emerito di Archeologia all’Università di Atene e autorità mondiale nel campo della Preistoria cicladica – ha dichiarato che almeno quattro o cinque dei pezzi proposti erano quasi certamente falsi. Malgrado la segnalazione di Doumas, non mi risulta siano state fatte verifiche in tal senso.

Il Met come si è posto rispetto a questa problematica?
Nel caso di una statuetta femminile di dimensioni insolitamente grandi, datata al primo periodo cicladico e nella quale si osservano delle fasce intagliate sul collo (caratteristica che non compare in nessun altro esemplare, ndr), il Met avvisa che l’autenticità dell’opera è aperta al dibattito. Un modo diplomatico per dire che probabilmente non si tratta di un originale. C’è da dire che ci sono falsari talmente abili che le loro creazioni meriterebbero di essere studiate come opere d’arte moderne, oltre che come testimonianze dell’intricata rete di saccheggiatori, collezionisti, artisti e musei.

Sebbene sia noto che in origine le sculture cicladiche fossero policrome, oggi ne viene esaltata la bianchezza. Perché?
Siamo davanti a un’eredità modellata dal paradigma coloniale, nazionalista e razziale dei secoli XIX e XX. In base a tali parametri, le figurine vengono connesse ai primordi dell’arte occidentale al pari dei kouroi del periodo classico. Nella cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Atene del 2004 un’enorme replica di una statuetta cicladica ha guidato la lunga sfilata della narrazione nazionale, saldamente inserita nello scenario dell’Occidente «civilizzato».

Eppure il movimento per la decolonizzazione dei musei è sempre più impegnato nella decostruzione della modernità razzializzata.
C’è ancora molto da fare affinché la decolonizzazione non si riduca a un gesto sporadico e simbolico che si manifesta, ad esempio, con l’assunzione nei musei di personale appartenente a comunità subalterne, mentre chi sta ai piani alti della gerarchia continua a portare avanti un paradigma coloniale.

Quali soluzioni intravede?
Sono consapevole che, man mano che gli Stati e gli enti pubblici si ritirano dal campo della cultura, i musei sono costretti a fare affidamento sui finanziamenti delle aziende o sul denaro «oscuro» proveniente, tra le altre fonti, dalle società petrolifere. Malgrado ciò, ritengo che i musei debbano recidere i legami con le corporazioni globali e le élite plutocratiche per coinvolgere concretamente le differenti componenti della società civile nel dibattito sull’eredità materiale.