Alexandra Pirici, “Encyclopedia of Relations”, 2022, photo Ela Bialkowska

Una Biennale sotto la duplice, sinistra insegna della pandemia e della guerra in Europa – il padiglione russo chiuso e vuoto come segno inequivocabile del ritorno della Storia, i lutti, la paranoia, l’anomia degli scorsi due anni ancora ben vivi nella memoria. A contrasto, l’esposizione internazionale curata da Cecilia Alemani, Il latte dei sogni, si presenta come un’indagine intorno a un tema-feticcio del decennio prima – la politica e l’estetica dell’identità –, oggi fatalmente eclissato dall’irruzione di eventi cataclismatici che trasformano in forme impreviste e violente le relazioni tra individui e comunità, tra narrazione e verità, tra umanità e natura. Dalla sfasatura tra progetto e attualità vien fuori un’edizione in cui l’arte risulta troppo spesso afona, evasiva, senza mordente, costretta com’è a farsi esempio pedagogico e pratica virtuosa.
Il caso più emblematico è in questo senso il padiglione americano e l’installazione Sovereignty di Simone Leigh, Leone d’oro 2022, i cui motivi-guida – una denuncia della perdurante logica coloniale, del razzismo e dei suoi meccanismi di esclusione, la rivendicazione della blackness come matrice culturale alternativa – sono annunciati sin dall’esterno, dissimulato da una copertura posticcia di legno e paglia, polemica allusione ai famigerati padiglioni «africani» dell’Exposition Coloniale di Parigi del 1931. Ma la scenografia e soprattutto le ieratiche, massicce sculture in bronzo di Leigh, con la loro trama di riferimenti iconografici, storici, antropologici, con tutto il loro goodwill politico, risultano inerti, artisticamente reazionarie, affette come sono da un monumentalismo pompier del tutto privo di forza di scandalo. Le grandi figure applicano i precetti senza tempo di un naturalismo ambiguo e subito consumabile, una fuga in un passato consolatorio e inoffensivo. Sono gesti – lo ha notato Ester Coen sulle pagine di questo giornale – di compiaciuta, narcisistica autorappresentazione.
Introdotta da un’altra figura monumentale di Leigh e dal grande Elefante a grandezza naturale di Katharina Fritsch – allusione, suppongo, alla dualità donna-animale su cui vorrebbe riflettere la mostra – la Biennale 2022 esibisce il suo debito nei confronti di una proteiforme theory in cui si combinano e si saldano teorie dell’identità, studi postcoloniali, decostruzionismo storico, pratiche politiche alternative ecc. Tendenze che sembrano oggi monopolizzare in senso «presentista», specie nel mondo anglofono, tanto la discussione in ambiti un tempo detti umanistici, quanto, e in modi ben più radicalmente influenti in senso politico, la sfera dei social media, il cui nuovo potere di condizionamento è il vero convitato di pietra di una manifestazione sempre attenta a mai convocare la violenza, l’insanabile contraddittorietà dei conflitti reali.
La contestazione dello spazio maschile dell’arte condotta in maniera eclatante da Alemani dovrebbe innescare non solo un benefico allargamento del canone a eminenti figure di artiste ma soprattutto un’ambiziosa riscrittura in chiave identitaria delle possibilità e dei limiti delle pratiche di creazione, una loro purificazione e «moralizzazione» dopo il tramonto, vero o presunto, del monopolio dell’artista-demiurgo. Obiettivo verso cui confluiscono dunque la richiesta, confusa ma certo indifferibile in epoca di global art, di abbandonare i vecchi paradigmi «eurocentrici», gli imperativi della correttezza politica e della rappresentazione delle minoranze – con i loro inesorabili corollari di censura, autocensura e furore iconoclasta –, e l’esigenza, insieme ingenua e aggressiva, di reintegrare un «senso» (o un’«origine») a esperienze artistiche oggi minacciate (e sedotte) dall’inflazione della creatività generica. Istanze queste peraltro convergenti, e qui sta una paradossale contraddizione, con gli infallibili meccanismi di valorizzazione di un sistema dell’arte centrato sul dominio di poche, grandi gallerie e istituzioni pubbliche e private, tutte operanti nel mondo «occidentale» a trazione americana.
Da mesi la macchina dell’iperinformazione rilancia numeri e «contenuti» della mostra veneziana: la schiacciante prevalenza di artiste, le personalità dimenticate o rimosse, gli obbligatori grandi Temi e Interrogativi. Al critico spetta però un compito diverso, riflettere non solo su ciò che c’è, ma anche su ciò non c’è o non è immediatamente visibile. Come un aspetto di solito trascurato, benché di tutta evidenza: i cartelli e le didascalie, i «testi di sala», fondamentali per orientare la disposizione mentale e percettiva con cui il visitatore percorre lo spazio di un’esposizione. A partire dal testo di apertura, dove si parla di strategie di «re-incanto», di «un viaggio immaginario attraverso le metamorfosi dei corpi», di «comunione con il non-umano», fino alle frasi colte nei cartelli posti accanto alle opere, dove il più legnoso gergo accademico incontra il tono suadente dei professionisti del copywriting culturale. Come tiranniche guide turistiche, le didascalie appaiono alla costante ricerca di una quadratura ideologica, di un disciplinamento retorico il cui effetto è sottrarre alle opere capacità di produrre vera sorpresa, vera, problematica rivelazione.
Per molti versi questa Biennale segue da vicino il modello dell’edizione curata da Massimiliano Gioni nel 2013, la prima a proporre un modello di mostra enciclopedica aperta a recuperi di outsiders e personalità meno note, quest’anno concentrati nelle cinque Capsule dedicate a succinte presentazioni di figure femminili del passato. In generale le scelte di Cecilia Alemani appaiono però caute e conservatrici, come testimoniano le pochissime opere di soggetto potenzialmente controverso: dominano il lirismo, l’autobiografia, un certo gusto primitivista, così come la pittura, il disegno, la figura antropomorfa; ampio spazio è dato alla manualità, a tecniche e tradizioni «minori», al bricolage. Non sono molte le opere in dissonanza con questo clima. Alcuni esempi: The Parents’ Room, un video di Diego Marcon dall’atmosfera straniata e profondamene disturbante; la suggestiva coreografia di Alexandra Pirici Encyclopedia of Relations; l’installazione Untitled di Robert Grovesnor, con i suoi sottili esercizi di dissociazione tra oggetto e funzione. Molto più spesso i lavori esposti riecheggiano tradizioni folcloriche e popolari, ovvero rivisitano certi stilemi della pittura postmodernista e soprattutto motivi dell’immaginario surrealista, specie nelle sue manifestazioni pittoriche più «magiche», intimiste, trasognate. Con risultati raramente degni di nota tranne alcune eccezioni, ad esempio i dipinti di Cecilia Vicuña, le carte di Sandra Vásquez de la Horra o le intricate visioni biomorfiche di Emma Talbot.
Un surrealismo depurato insomma di ciò che Bataille avrebbe chiamato «la parte maledetta» – quanto cioè supera il limite della ragione discorsiva, l’informe, l’eccesso, il negativo – e che costituisce il fondamento del suo attacco al logocentrismo della tradizione occidentale. Una rimozione necessaria, data la sua incompatibilità con la pedagogia etica richiesta a un’arte cui si attribuisce il compito di «rappresentare» i molti volti del soggetto atomizzato dell’epoca neoliberale, l’Io perfettamente autonomo in cui si realizza, come ha notato Rocco Ronchi, l’utopia di una riduzione integrale dell’esistenza associata alla forma del mercato.
La Biennale di Cecilia Alemani normalizza così la tendenza a ridurre l’esperienza artistica a strumento di superficiale, edificante riparazione, di conferma narcisistica e di nominale redistribuzione del potere, funzioni del tutto omogenee alla riproduzione del sistema cui in apparenza si vorrebbe opporre. È un atteggiamento in cui traspare una paradossale sfiducia nella capacità dell’arte di penetrare la scorza dell’identità per mostrarne gli slittamenti e l’intima fissurazione, di far emergere quanto di ambivalente, di inammissibile, vi è in noi stessi e nel mondo, di far intravedere ciò che rimane precluso e continua a far male.