Identità (e vocazione?): picchiatore
In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
Le foto dei fratelli Bianchi (presunti) assassini di Willy Monteiro Duarte campeggiano in prima pagina, e si moltiplicano chissà quante volte nelle reti dei social.
Due maschi con muscoli molto sviluppati e il corpo tatuato. Su facebook trovo una discussione. «Sì, 5 belve ammazzano un ragazzino di colore. Di botte. E incarnano lo stereotipo del maschile nella sua essenza più bieca. Muscoli, tatuaggi, arti marziali, occhiali da sole, ostentazione di virilità. Quanto è plastica la mascolinità tossica in questa immagine, quanto felice sono di non assomigliargli affatto».
Un altro risponde: e se a picchiare a morte fossero stati giovani grassocci per nulla “palestrati”?
Quindi arriva l’osservazione: «Resto sempre perplesso quando vedo le foto dei “cattivi”. A che serve? Fino alla sentenza, di questi non si può dire che siano assassini. Nel nostro Paese esistono ancora garanzie democratiche per chi è indagato. Non bisogna mai “sbattere il mostro in prima pagina”: non fa che aumentare la rabbia e la difficoltà di giudicare serenamente».
Mi accorgo che sto esitando a mettere nomi e cognomi di chi si è espresso, eppure si tratta di una discussione pubblica, in cui ognuno, come si dice, «ci mette la faccia», o quanto meno la propria identità in rete.
Sarei anche d’accordo contro la prassi giornalistica di «sbattere il mostro in prima pagina».
C’è però il fatto che a rendere pubbliche le proprie immagini sono gli stessi protagonisti di questa orribile storia. Infatti le foto che ostentano bicipiti e «tartarughe» addominali sono visibili sulla pagina facebook di uno dei due fratelli. Pagina alla quale ho appena potuto accedere. È una strana, conturbante esperienza, devo dire, mai provata prima, entrare così facilmente in «intimità», sia pure «virtuale», con persone che molto probabilmente si sono rese responsabili di una violenza così orribile.
Altrettanto impressionante leggere le oscenità tremende scagliate contro di loro da quanti reagiscono alla violenza con violenza – certo per il momento verbale – in un certo senso uguale e contraria.
Ma la cosa che mi ha impressionato di più sono alcune parole che ritornano nelle cronache: «assalito e finito da due fratelli noti picchiatori della zona». Ecco come una, anzi due, esistenze umane si riducono, e forse si autoriducono per una incredibile «vocazione», all’essenza di menare le mani, a un culto dell’aggressività.
Del resto la «massima» nella testata della pagina facebook di Gabriele Bianchi è questa: «Per te contro tutto e tutti con le mani come non ci fosse un domani (FAMIGLIA)». Si direbbe la confessione agghiacciante di un nichilismo che si rifugia in difesa «armata» in quelle lettere maiuscole tra parentesi.
Non ho dubbi che all’origine di questo disagio ci sia una deviata percezione del proprio essere maschi. Bisognerebbe però, oltre a punire un crimine così grave, comprendere meglio che cos’altro produce comportamenti, sentimenti tanto poveri e oscuri.
Sempre su facebook trovo una riflessione di Emanuele Macaluso, mio vecchio direttore all’Unità: «Ma noi ci poniamo una domanda: qual è la vita sociale in tanti Comuni, e non solo nel Mezzogiorno? (…) La vita politica si svolge nell’incontro-scontro dei vertici, senza il concorso politico e umano di masse popolari. In questi anni il livello politico e culturale è scaduto. Quel che è avvenuto a Colleferro dovrebbe fare riflettere, perché non si tratta solo di questo paese. Se qualcuno pensa che queste mie parole esprimono solo nostalgia per un vecchio modo di fare politica si sbaglia. E sbaglia chi su questi gravi fatti, che sembrano di cronaca, non apre una riflessione politica».
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