Codice identificativo per i poliziotti? I sindacati: «Solo se di reparto»
Polizia I sindacati degli agenti si oppongono al codice alfanumerico da apporre sulle divise. Il Siap: «Sarebbe l’olocausto delle forze dell’ordine». E Cicchitto ripete: «No alla riforma»
Polizia I sindacati degli agenti si oppongono al codice alfanumerico da apporre sulle divise. Il Siap: «Sarebbe l’olocausto delle forze dell’ordine». E Cicchitto ripete: «No alla riforma»
«A Genova ci furono degli errori tragici, ma sono contrario a trarre delle conclusioni che portino all’identificazione dei poliziotti». Oggi come allora è un esponente della maggioranza di governo, Fabrizio Cicchitto, attualmente deputato di Area popolare, che è stato membro della commissione di indagine sui fatti accaduti nel luglio 2001 e che continua a farsi portavoce dei desiderata delle forze dell’ordine. «Se mettiamo il termine “minaccia” dentro la tortura rischiamo di ampliarla a dismisura – ha detto ieri in una trasmissione mattutina di Rai1 – Sono poi contrarissimo all’identificazione dei poliziotti perché significa smantellare la polizia italiana».
Sarà per la «sudditanza psicologica nei confronti delle forze dell’ordine» – come definisce il senatore Pd Luigi Manconi la sindrome che impedisce al legislatore italiano di adeguarsi alle direttive internazionali prostrandosi supinamente invece ai diktat del peggior corporativismo poliziesco – ma l’allarme lanciato da Cicchitto non è altro che la versione soft di quello paventato ad ogni occasione, perfino nelle varie audizioni tenute in Parlamento, dai sindacati degli agenti: «Siamo favorevoli solo ad un numero identificativo di reparto, non a quello individuale, e solo a condizione che vengano puniti maggiormente anche i reati contro le forze dell’ordine. Altrimenti sarebbe l’olocausto delle forze di polizia».
A usare parole così roboanti è invece il segretario generale del sindacato Siap, Giuseppe Tiani, che pure si definisce «dichiaratamente di sinistra», nato «da famiglia comunista» a Minervino Murge, «la rocca del proletariato meridionale, come recita la scritta sotto la statua di San Michele arcangelo, protettore – guarda caso – della polizia».
Al netto dei toni apocalittici, però, la posizione di Tiani, che è la stessa del Siulp, del Silp o di altri sindacati “progressisti”, è in effetti condivisa dalla maggioranza degli agenti, se si escludono piccole sigle come il Sap di Tonelli, storicamente l’ala destra delle divise, che di introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano e di codice identificativo per i poliziotti non vogliono nemmeno sentire parlare.
Il Siap invece dice sì alla nuova legge che persegue la tortura e che tornerà oggi in discussione alla Camera, ma a due condizioni: «Purché ci sia una netta differenziazione tra il dolo generico e il dolo intenzionale e purché il reato sia configurato come comune e non specifico per i pubblici ufficiali. Perché – spiega Tiani – rischierebbe di perdersi nella perseguibilità, solo episodica e circoscritta, di una serie di autonome condotte, ricavabili da previsioni incriminatrici già esistenti». Per esempio, per dirla in modo più chiaro, «potrebbero essere considerati atti di tortura anche alcuni eccessi nella carcerazione preventiva».
Ma è quando si affronta il discorso del codice alfanumerico sulle divise degli agenti in servizio nelle operazioni di ordine pubblico che le rigidità diventano perfino maggiori. Malgrado nel Regno Unito le targhette nominative siano state imposte già dal 2005 a tutti gli operatori e i dirigenti, e altri Paesi, come Spagna, Francia, Germania, Svezia, Irlanda del Nord, Svizzera e Grecia, si siano adeguati nell’ultimo decennio al Codice europeo di etica per la polizia, la raccomandazione adottata dal Consiglio d’Europa il 19 settembre 2001. In Italia invece le tante iniziative parlamentari – la prima fu avanzata alla Camera il 24 settembre 2001 – sono naufragate nel nulla. In Senato, dove dal 2009 è rimasto nel cassetto il ddl 1711 presentato dai Radicali Donatella Poretti e Marco Perduca, da un anno a questa parte la commissione Affari costituzionali è alle prese con una serie di disegni di legge (a cominciare da quello di Sel, primo firmatario Peppe De Cristofaro, fino alle proposte di Luigi Manconi, del pentastellato Marco Scibona e dell’ex grillino Lorenzo Battista) affidati al relatore Vito Crimi, del M5S.
Se non ci fosse lo zampetto del ministro Alfano che, annunciando un provvedimento governativo, ha di fatto stoppato l’iter parlamentare (secondo quanto riferito dalla senatrice vendoliana De Petris), in commissione si discuteva di numeri identificativi «chiaramente visibili a distanza» da portare sui caschi, sulla divisa e sui dispositivi di riconoscimento utilizzati dagli agenti in borghese, dei dirigenti di piazza che devono pure essere facilmente riconoscibili, o del divieto di travisamento per gli operatori della sicurezza. Con pene che possono variare dalle sanzioni pecuniarie fino a 10 mila euro, alla reclusione fino a un anno.
«Riteniamo che il Paese non sia maturo per i codici identificativi personali che metterebbero a rischio l’incolumità degli agenti – si oppone Tiani – perché in Italia i segreti non durano a lungo e l’identità di chi guadagna 1200 euro al mese sarebbe presto svelata. Ma se dazio bisogna pagare per il clima che c’è su questo tema, può essere utile un codice che identifica il reparto o un’unità operativa. Non si tratta di tutela corporativa ma della polizia bisogna pur fidarsi».
I codici identificativi in alcuni paesi del mondo: Germania, Colombia, Canada.
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