Il problema fondamentale che l’Europa e l’Italia dovranno affrontare nel cruciale 2024 è l’obsolescenza del proprio modello produttivo.

La critica più pertinente alla «riforma della governance» europea, appena varata, è proprio la contraddittorietà tra nuove regole pur sempre molto restrittive, benché migliorate, e le grandi esigenze di investimento in transizione verde e in riorientamento della domanda interna verso i «beni pubblici europei» (ricerca di base, università, istruzione, cultura, sanità, riqualificazione ambientale e dei territori) che bisognerebbe soddisfare per affrontare l’obsolescenza del modello.

In questi marosi occorre sottolineare che la stagnazione della produttività, caratteristica saliente del modello europeo e italiano, non è contrastata nemmeno dalla tanto decantata Intelligenza Artificiale. Il punto è che anche l’Intelligenza Artificiale sta seguendo la stessa strada adottata dalle altre nuove tecnologie, cioè la destinazione dei loro miglioramenti, invece che ad elevamento del benessere generale e ad espansione dell’occupazione, a riduzione dei costi e a risparmio di lavoro che si rivelano in ultima istanza frenanti l’incremento di produttività. L’apparente paradosso è spiegato da Daron Acemoglu (Potere e progresso, con Simon Johnson, il Saggiatore) con la distinzione tra «produttività media per addetto» (la produzione totale divisa per l’occupazione totale) e «produttività marginale» («il contributo aggiuntivo che porta un lavoratore in più in termini di incremento della produzione o ricavi per addetto»).

L’una non coincide con l’altra e, soprattutto, la «produttività media» può crescere anche se la «produttività marginale» rimane costante, il che accade quando le nuove tecnologie, invece di potenziare il contributo dei lavoratori alla produzione ed allargare la base produttiva – come avvenne nella lunga fase espansiva ad alto contenuto tecnologico del secondo dopoguerra – vengono utilizzate per espandere l’insieme della mansioni eseguite da macchine e algoritmi sostituendo i lavoratori che le svolgevano in precedenza. Dunque, quello che conta davvero, per le imprese e per il benessere generale, è far crescere, oltre la «produttività media», la «produttività marginale», il che significa che solo applicando l’Intelligenza Artificiale non in opposizione ma estendendo il lavoro e la base produttiva cesserà la stagnazione e la produttività complessiva crescerà.

Sono per l’appunto queste le motivazioni che spingono Acemoglu a porre con grande forza la questione della direzione dell’innovazione, senza ritenere il corso dell’innovazione un processo neutrale naturalisticamente determinato e, al contrario, operando per incidere sulla grande «biforcazione» in atto e sfruttarne le «finestre di opportunità». Gli esempi possono essere molti, ma restando a quello del digitale, è facile segnalare che «l’architettura degli algoritmi dei sistemi on line può essere disegnata in modo da favorire la discussione e il dialogo, piuttosto che le pratiche provocatorie tese a catturare l’attenzione». La stessa automazione e la stessa raccolta dei dati non sono dannose in sé, il problema insorge quando si afferma un «portafoglio sbilanciato di innovazioni» che danno eccessiva priorità al risparmio di lavoro e alla sorveglianza senza creare nuove mansioni e opportunità per i lavoratori.

Va detto che tutto ciò richiede una direzione dell’innovazione intesa non solo come indirizzo e intervento sull’uso che se ne fa una volta che essa sia stata creata, ma anche come spirito ideatore nella fase della sua creazione. Non si tratta, infatti, soltanto di controllare ex post le tecnologie per attutirne ed evitarne distorsioni, pericoli, usi manipolatori, ricadute alienanti, violazioni della privacy.

Si tratta di immaginare e ideare ex ante tecnologie e cicli innovativi totalmente alternativi a quelli dominati dalle grandi corporation. Non possiamo non vedere l’intenzionalità esplicita e determinata con cui l’operatore pubblico, la sfera istituzionale, i soggetti sociali possono guidare l’innovazione, dall’imposizione della produzione di antibiotici del governo americano alle case farmaceutiche riluttanti nel 1940, al complesso Apollo interrelato, all’automobile senza guidatore voluta dalla Darpa (agenzia americana pubblica), ai progetti Galileo e Cern dell’Europa e così via.

E se questa «direzione» intenzionale è già stata possibile, perché non dovrebbe essere possibile per la generazione di altre innovazioni socialmente utili? Innovazioni orientate a soddisfare grandi bisogni insoddisfatti, a partire dalla creazione di lavoro, con uno straordinario Piano del lavoro per giovani e donne che non soggiaccia al suo obnubilamento nella nebbia della jobless society e contrasti radicalmente la diffusione di lavoro povero, dequalificato, degradato, servile.

Questo è, infatti, il punto: se anche fosse vero – e non lo è – che evolviamo verso la «società senza lavoro», la nostra responsabilità è di ideare, inventare, immaginare un modello di sviluppo alternativo strutturato su una «piena e buona occupazione» anche creando direttamente lavoro, con cui la società come employer of last resort alimenti la fioritura dei territori, dell’ambiente, delle città, dell’istruzione, della sanità, dei beni sociali e culturali, dei bambini e degli adolescenti.