«Eros e Thanatos siedono allo stesso tavolo, spezzano lo stesso pane, aspettando un terzo, l’ospite». In L’aspetto orale delle poesia (pubblicato nel 2000 per le edizioni Anterem e nel 2007 per Moretti&Vitali), Ida Travi allestisce, per brevi paragrafi, l’architrave di qualche fonte teorica cui riferirsi, per poi, da qualcuna, congedarsi. Seguono dunque Platone e Zambrano, Arendt, Kristeva, Buber, Havelock e altri. Utile rileggere quelle pagine, alcune pensate durante i seminari che Travi ha tenuto all’Università di Verona, in collaborazione con Chiara Zamboni. Siamo in presenza di una delle poete contemporanee più significative che insieme alle sue numerose sillogi ha la dote rara di averci reso edotti di come si disponga la parola, la sua gestazione e la contraddizione, storica e simbolica, dell’antica separazione tra poesia e filosofia, e di quanto, tutto ciò, abbia avuto un precipitato nel dire. Di che cosa implichi convocare la lingua concreta e materna, su cui poggia quella oralità che per Travi, originaria della provincia bresciana, vissuta a Milano ma da molti anni a Verona, è più di un semplice aspetto. Che si sia a un desco in cui la mano comincia a scrivere o a una tavola impastata dal «sentimento del tempo», dal «sentimento del corpo», si fa strada l’ospite – sempre ciò, o chi, non si attende. In questo caso è un libro, che ha il nome di uno strano popolo: I Tolki, in cui grazie alla lungimiranza del Saggiatore (pp. 473, euro 22) sono finalmente riuniti gli otto libri composti dal 2011 a oggi. È una operazione importante, perché dà conto di un esperimento originale di poesia per personaggi, e personagge, capace di raccontare di un mondo perduto e a venire.

CHI SIANO queste misteriose creature, lo dice Travi in apertura del volume, introducendo Tà. Poesia dello spiraglio e della neve (2011, i primi cinque libri sono stati pubblicati negli anni da Moretti&Vitali, gli ultimi tre da Edizioni Volatili) là dove il più assonante talk lascia il posto al più denso neologismo lacaniano di parlêtre, fondendo l’essere al linguaggio, nell’atto della pronuncia. Si potrebbe aggiungere della consistenza, una creazione di mondo in cui il sintomo è già un trauma, nella sua accezione sonora e di sogno, in cui il sotto e il sopra si toccano e mutano di stato. I Tolki dunque fanno il loro ingresso per definire che c’è un marchio del linguaggio e che il tempo in cui sono immersi ci riguarda, non si sa subito a che titolo eppure questa manciata di esseri umani e non umani, gettata in un luogo imprecisato, è il taglio di una lingua che si oppone all’astrazione. Siamo in un post-lavoro, un post-scuola, un post-abitativo, un post-nucleare. Ciò che i Tolki rappresentano è infatti la scena di esistenze sopravvissute, immagini della scarsità, in cui la parola è un osso, è l’erba, anzitutto la restanza davanti alla stupefazione della neve, motivo ricorrente nella poetica di Travi che colloca nell’inverno e nel suo silenzio ciò che abbaglia, attonito.

OLIN, ATTÈ, INNA, Antòn, Katrin, Usov sono i parlanti che spuntano da un buio e intravvedono ciò che rimane. Uomini e donne comuni, non pontificano niente, forse vivono in una ex fabbrica abbandonata, talvolta tra le rovine di una drogheria o di una stazione di benzina, si aggirano davanti a una casa che, lo giurano, non verrà demolita. Occupano la terra di Zard, vivono insieme, trascinano carretti e secchi, qualcuno è innamorato, hanno dei nomi e delle insegne, pulsanti e forse ferrovie. Ad aprire c’è il gesto onomatopeico del , un colpo e il destino di sasso in cui talvolta nasciamo. E moriamo. Nonostante tutto, fanno famiglia anche se non lo sono, stanno alla grazia e al fango come ai letti dei fiumi, dispongono di oggetti e strumenti. Infine sanno diverse cose: che non si può discutere con le rose perché hanno sempre ragione loro, che se stringi nella mano il nocciolo di una questione rischi di ferirti. Conoscono, e invocano, la preghiera del mare, si sollevano fino alla luce. Perché, anche se hanno nel petto un profondissimo pianto, hanno smesso di versare lacrime. I Tolki non hanno prodotto lo sfascio che li ha preceduti, non hanno colpe, possiedono invece grembiuli, divise da cui talvolta scintilla l’oro. Sul torace.

Con il secondo libro, Il mio nome è Inna. Scene dal casolare rosso (2012), Ida Travi sgrana alcuni elementi che le occorreranno per presentare altri abitanti di Zard, nei libri successivi: Katrin, saluti dalla casa di nessuno (2013), Dora Pal, la terra (2016); modi in cui il tempo non lineare si dipana, qualità di uno statuto solitario in cui si reinventa il vivere comune e in cui le disposizioni sono altrettante posture dei corpi.
Già nel suo Poetica del basso continuo (Moretti&Vitali, 2015), raccolta di saggi e interviste, Ida Travi esponeva l’idea misteriosa, «certamente zoppa», di quel passo sghembo, imperfetto che ricorda la forma del ditirambo e che precisa come «in basso, nel pericolo e nella fragilità comincia la rivoluzione del linguaggio poetico (…) È il linguaggio del battito cardiaco, con qualche inciampo, prima del discorso. È il linguaggio più vicino all’agire. Lì succede qualcosa. Si mangia, si beve, si parla di sostentamento. C’è qualcosa di vivente, un battito a cui si attiene, nel suo scorrere, anche il tempo». Se volessimo intendere le sillogi, dalla seconda alla quarta, come la nominazione di tre protagoniste, diremmo che Inna, Katrin e Dora Pal sono i primi e saldi esempi di ciò che indica l’oralità, ovvero uno schiudersi della bocca nel segno orante di una relazione: «non c’è prima la nascita e poi la relazione: nasciamo già in relazione col mistero dell’altro».

NEL CASO DI INNA è lei l’abitante che raduna, l’area è suburbana oltre la catastrofe, Nikka, Sasa e Zet; pensa al cielo e fa le veci di una madre, anche se non ha generato nessuno. Come si chiama il sole? Si domanda. E come si chiamano l’incendio e l’acqua. «E tu che mi chiami di notte come ti chiami?/ Ti ricordi il colore dei miei capelli?». I bambini e le bambine (in questo caso Sasa, nella silloge successiva ci sarà Kiv) sono il nuovo che arriverà o, nei versi dell’autrice, punti di fuga infiniti, il neo: «È notte intorno al fagotto/ non c’è un sospiro, non c’è/ un lamento, tutto solleva il mondo/ tutto scompare, tace». Le occorrenze sono numerose, come in Dora Pal: «Ognuno ha il suo bambino nella testa/ è una salvezza il bambino perché canta». Gli enti, gli altri sensibili, gli esseri non umani, sono sfondo diffuso e mescolato a ogni raccolta, sono il corollario dei Tolki, di una malinconia, come nel libro dedicato a Katrin «Quand’ero un albero non soffrivo così/ al lavoro non soffrivo così/ Come un badile, come un pugno/ quando arriva sulla terra, come un pugno/ quando schiaccia un moscerino/ ma non sono un moscerino, io (…) // sono la nuvola uscita dalla polvere/ sono la tosse, io, sono il brivido celeste/ della casa, sono dentro la casa». In Tasàr, animale sotto la neve (2018) diventa più esplicito quanto cani, oche, lupi, rondini, cavalli, farfalle siano sparsamente fondanti la terra di Zard. Del resto, come ha notato Daniele Barbieri, «la saga dei Tolki finisce per assumere l’aspetto di un’epica» (alcune poesie sono state tradotte in diverse lingue, tra cui il francese – per le cure di Francesca Maffioli).

L’ASINO PROTAGONISTA di questo quinto libro in versi è, nella mente di Ida Travi, un riferimento a Bresson e al suo film del 1966, Au hasard Balthazar. Nella stessa direzione, più visiva, i riferimenti dell’autrice brillano di altri registi, Godard ma anche alcune atmosfere di Ozu, sia per quanto concerne le relazioni («Io volevo un amore non questa conversione della pena!», oppure «E le nuvole, e il volo degli uccelli/ e l’amore che arriva di notte/ e si siede sulla branda/ non appena si spegne la luce»), sia per la gravità dei corpi, per esempio nella raccolta Marìe canta la famiglia del secolo (2020), e in Muscèt parla col cane (2022, che poi è discendente della Mouchette bressoniana) e infine Janì, l’ora della cancellatura (2023). Sono ragazzine e ragazzini, «erbe fluttuanti», pallidi sì, vulnerabili ma decisi. Tornano o vanno via: «Metteremo i limiti, aspetteremo gli animali/ prenderanno la parola, gli animali». E i Tolki, insieme a loro. Spezzano lo stesso pane, «si alzano con gioia, si inchinano al terribile».