La pittrice Ida Maly nasce a Vienna nel 1894. La famiglia si trasferisce a Graz, Ida frequenta il liceo e stringe amicizia con Marta Newes. Si iscrive alla scuola d’arte e a un corso di pubblicità. Torna a Vienna. Si innamora, lavora in fabbrica, pratica sport ed eccelle nel salto con l’asta. Si trasferisce a Monaco. Si arrabatta con i lavori più bizzarri. Si sposta tra Vienna, Berlino, Dresda, Parigi. Frequenta un mondo intelligente, teatrale, letterario e d’avanguardia. Rifiuta di essere ingabbiata nelle regole sociali. È probabilmente bisessuale. Ha una figlia fuori dal matrimonio, l’affida a una coppia che l’adotterà. Per i suoi tempi Ida Maly è una donna molto speciale. Non è folle ma la diagnosi è di schizofrenia: viene internata in ospedale psichiatrico per la sua stranezza e diversità. Correva l’anno 1928 e la malattia si configurava moralmente rispetto alle convenzioni sociali. Ida Maly morirà nel 1941 vicino a Linz, nel castello di Hartheim convertito dai nazisti in un centro di eutanasia con camera a gas e crematorio per eliminare i minorati in Austria, dov’erano già stati sterminati i bambini handicappati.

A raccontare le vicende di Ida Maly è la storica dell’arte Bianca Tosatti nel suo «Con il senno di poi. Nulla rimane fermo. Nulla rimane nostro» (Prinp, Torino, pp. 230, euro 20). Nel volume, l’autrice riporta le vicende di altre artiste morte nei campi di concentramento dopo essere state a lungo internate come malate psichiatriche perché, anziché sposarsi, lottavano per la loro libertà e indipendenza. Un po’ come nell’inquietante romanzo «Il ballo delle pazze» di Victoria Mas (e/o, Roma, 2021, pp. 182, euro 16,50), ambientato a fine Ottocento nel manicomio di Parigi, dove buona parte delle alienate erano donne scomode, rifiutate, che le loro famiglie avevano abbandonato nell’ospedale della Salpêtrière per sbarazzarsene. Le opere delle artiste citate da Tosatti erano state trovate soltanto a fine anni Settanta e inizio anni Ottanta nei sotterranei dell’università di Heidelberg, miracolosamente scampate. A farne incetta, nei manicomi di tutta Europa, era stato lo psichiatra Hans Prinzhorn.

Il lettore lo avrà ormai compreso: il tema del libro di Tosatti è l’Arte Irregolare, conosciuta a nord delle Alpi come Art Brut, un concetto elaborato nel 1945 dal pittore francese Jean Dubuffet per indicare le produzioni artistiche realizzate prevalentemente da coloro che erano ricoverati negli ospedali psichiatrici e operavano al di fuori delle norme estetiche convenzionali. «È una questione trascurata. Arte infantile, arte primitiva, arte ingenua o Art Brut sono quattro punti nevralgici. Mi resi conto che le poche teorizzazioni, come quelle del Museo di Losanna, facevano riferimento a Dubuffet ed erano completamente superate già a fine anni Ottanta». Per questo motivo, Tosatti ha definito un nuovo campo di indagine dell’irregolarità nell’esterno, nella periferia del mondo dell’arte in cui ancora non c’era mercato e quindi non esistevano sogni di gloria ma solo una forte spinta a produrre opere della creatività.

Poco per volta, Tosatti ha scoperto autori importantissimi, anche in Italia. A distanza di qualche decennio, l’arte irregolare è ormai di moda e le sue quotazioni sui mercati internazionali sono altissime. «A rendere la situazione vivacemente confusa», conclude Tosatti, «è il fatto che l’arte nei suoi aspetti più popolari è sconfinata nella ricerca per essere applicata nei centri terapeutici, nella riabilitazione e nella didattica. A mio parere, questa è però solo creatività, non ha nulla a che vedere con l’arte irregolare».