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«Icônes», l’arte di andare oltre la realtà

«Icônes», l’arte di andare oltre la realtà«Time Measures» di Dayanita Singh per «Icônes» a Punta della Dogana

La mostra A Venezia, Punta della Dogana, a cura di Emma Lavigne e Bruno Racine, un viaggio nella rarefazione del quotidiano che mette in dialogo Lygia Pape e Lucio Fontana, l’artista coreana Kimsooja, Edith Dekyndt, Dayanita Singh, Chen Zhen...

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 aprile 2023

Lo «spazio magnetico», secondo l’artista brasiliana Lygia Pape, è quel luogo dove poter esercitare la meraviglia, calamitati dalla tentazione di fuoriuscire dai confini, fisici e mentali. A riscoprire l’ambiguità dei margini ci conduce Tteia, la sua titanica installazione composta di fili d’oro intrecciati che si estendono dal pavimento al soffitto (o viceversa), formando arcobaleni e vie lattee inaspettate – quel vaporoso e aureo ultramondo lo ricordiamo anche in apertura del percorso alle Corderie nella Biennale del 2009.

Minimi scarti geometrici rendono labirintica quella cascata di luce invitando a un’immersione nella penombra caduta sulle stanze dell’arte di Punta della Dogana.

«Tteia» di Lygia Pape

È quasi una iniziazione mistica, un rovesciamento continuo fra visibile e invisibile. L’invito è quello di camminare tra i fantasmi ed è rivolto a chiunque entri nella prima «cappella»: così hanno concepito la mostra Icônes Emma Lavigne e Bruno Racine, come un viaggio nella rarefazione del quotidiano e nell’attrazione viscerale che lega, in modo indissolubile, vita e morte. L’esplorazione, che proseguirà fra ascesi e risonanze (questi i «titoli» delle sale), esordisce con una illusione ottica e percettiva, mettendo in dialogo Pape e Lucio Fontana, preparando la smaterializzazione dello spazio e il gioco di ribaltamenti specchianti nel Torrino dell’artista coreana Kimsooja. Lì, nell’antica dogana da mar, tutto si sdoppia, mimando trasparenze liquide che sconfiggono la gravità del corpo.

La rassegna, pur nelle sue pause meditative, disseminata di silenzi ed evanescenze (senza mai dimenticare la barra del timone della Storia, risvegliata da quella bandiera di capelli al vento di Edith Dekyndt, un omaggio al vessillo issato sull’isola della Martinica nel 1830, teatro del naufragio di una nave con schiavi africani), possiede la stessa mobilità dei riflessi dell’acqua veneziana e pesca in quell’incrocio di civiltà d’occidente e oriente permeabili le une alle altre, testimoniato dal via vai di icone (religiose e contemporanee) e di paesaggi (altrettanto «iconici») che da sempre raccontano la città lagunare in dipinti, testi letterari, malinconici Grand Tour.

«Chrystal skulls» di Sherrie Levine per «Icônes» a Punta della Dogana

La narrazione è tesa, priva di orpelli didascalici e si inoltra in una foresta di segni e simboli attraverso alcune opere della collezione Pinault (una ottantina), accompagnate da importanti prestiti, destinate a scandagliare un tema senza tempo: quello dell’immagine nella sua etimologia e nella sua eredità antropologica, interrompendone però il flusso stordente cui siamo sottoposti e lasciando che le «icone» scelte siano le sole a spezzare l’oscurità che avvolge un itinerario dal sapore spirituale. Con i sensi all’erta, ascoltiamo il brusìo e i gemiti della drammaticità dell’esistenza che emanano dalle figure delle pitture nere di Goya, nel film di Philippe Parreno che proietta l’osservatore al centro dell’allucinazione, mentre – scaricate le tensioni – si esce dalla mostra dopo la lattiginosa purificazione visiva del tempio di Roman Opalka, che scandisce «cronologici pensieri» con una numerazione magica.

Cappelle sono, in fondo, anche le casette costruite con le candele da Chen Zhen, vulnerabili «altari di luce» e speranza, elementi votivi dall’equilibrio instabile. Questa serie di lavori (Un village sans frontières) furono realizzati a Salvador de Bahia, coinvolgendo bambini delle favelas. E dal Brasile viene Paulo Nazareth, artista-viaggiatore che attraversa a piedi gli sconfinati territori africani rilevando tracce da collezionare, «impronte» del colonialismo ma anche delle proprie radici. C’è il suo video Antropologia do negro dove seppellisce se stesso sotto un mucchio di teschi, sconttate metafora dell’anonimato di morti rimasti senza identità. A loro restituisce dignità con una cerimonia in cui offre il suo corpo per rimarginare una ferita sociale.

Se l’«Ascesi» è rappresentata dall’impalpabilità dei tanti quadrati concentrici di Josef Albers, lì dove tutto si fa incerto e transeunte, la «Morte e la Resurrezione» s’incarnano invece nei fluorescenti Chrystal skulls di Sherrie Levine: teschi ordinatamente sistemati uno dopo l’altro in una prospettiva che finisce per ammaliare lo sguardo, come una rete ipnotica di rimandi.

L’installazione di Dahn Vo

In una mostra che celebra le assenze per far posto alla memoria e incoraggia le improvvise «aperture di vuoti», non poteva mancare la fenomenologia sentimentale del vietnamita Dahn Vo. I suoi sterdardi religiosi, sospesi nello spazio centrale di Punta della Dogana, richiamano con i loro fragili aloni di oggetti ora scomparsi la liturgia ecclesiastica e i riti collettivi officiati con crocifissi, calici, pissidi. Sono i simulacri del tempo trascorso, l’incedere della Storia, un memento mori che lascia riaffiorare l’impermanenza del nostro vivere. Presto, attraversate dai raggi impietosi della luce, quelle «presenze» adesso solo accennate perderanno il loro spessore e sbiadiranno, via via disfacendosi.

Ma l’icona è soprattutto una capacità di astrazione dalla materialità della vita reale, come dimostra il film di Tarkovskij Andrej Rublëv, proposto nel percorso veneziano insieme a quell’Ivan il terribile di Ejzenstejn, trilogia che il regista non poté portare a termine (fu censurata e la terza parte mai girata).

Del personaggio storico, il cineasta russo esaltò non l’eroismo immaginato da Stalin, ma la sua solitudine dubbiosa, facendo ricorso a un linguaggio altamente stilizzato, forgiato proprio sull’arte bizantina (ancora una volta, le icone).

A interpretare al meglio il filo rosso che lega tutti i lavori che tessono la trama concettuale di questa mostra è l’opera dell’indiana Dayanita Singh, Time Measures. In una serie di fotografie ritrae una sorta di fagotto «chiuso» in una stoffa un po’ rovinata, usurata dal tempo: è il frutto di una sua ricerca negli archivi e dentro ogni misterioso pacco c’è un contenuto sconosciuto. Nessuno sarà mai aperto, rimarranno tutti lì come una «promessa di immagine» che unisce un invisibile passato a un altrettanto occultato futuro.

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