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Icaro, il divenire (in azzurro) del proprio io partenopeo

Icaro, il divenire (in azzurro) del proprio io partenopeoPaolo Icaro, "Cumulo rete", 1968, in "Dribbling", Galleria Lia Rumma, Napoli, foto Michele Sereni

A Napoli, Galleria Lia Rumma, "Dribbling" Paolo Icaro ripensa il suo rapporto con Napoli, e con Marcello Rumma, in un percorso che «risignifica» alcune opere da lui realizzate nel ’68: quando la sua scultura si aprì al 'tempo'

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 16 gennaio 2022
Paolo Icaro, cortesia Galleria P42

 

Dribbling è il titolo della personale di Paolo Icaro in corso alla Galleria Lia Rumma di Napoli fino al 28 febbraio. Come tutti i titoli-definizioni delle sue mostre, Dribbling condensa molteplici aspetti della sua riflessione sulla scultura e del suo modo di vivere l’esperienza artistica nel sistema dell’arte, a partire dagli anni sessanta. Dribbling è un’azione che implica un procedere in avanti, con velocità, equilibrio e fantasia, evidenziando la capacità di spostarsi lateralmente per aggirare l’ostacolo. Un procedere, dunque, nel tempo e nello spazio, che si nutre del coraggio di esperire la lateralità come orizzonte di libertà, al di fuori di condizionamenti, sistemi e categorie.
Invitato da Lia Rumma a ideare una mostra per la galleria di Napoli, Icaro ha ricostruito la propria «archeologia» partenopea, ripensando al suo rapporto con la città e con Marcello Rumma, a partire dalla rassegna di Amalfi Arte povera più azioni povere – mostra curata da Germano Celant, che sarebbe passata alla storia come una degli eventi paradigmatici del ’68 dell’arte.
Icaro ha così selezionato una serie di opere realizzate in quello snodo germinale del suo percorso artistico, ovvero tra il 1967 e il 1969, quando, andando oltre l’oggetto, la sua scultura si immetteva nel divenire, esplorando una nuova relazione con lo spazio, con la propria storia personale e il proprio corpo. Allora, di ritorno dal soggiorno a New York, dove aveva trascorso un biennio tra il 1966 e il 1967, si era stabilito a Genova e, nel capoluogo ligure, aveva vissuto il «suo ’68» – la sua militanza artistica incentrata su una nuova fenomenologia della scultura.
In mostra a Napoli sono oggi riunite una serie di opere che avevano costituito l’ibrida partitura espositiva della personale Faredisfarerifarevedere 0106768 tenutasi nel 1968 alla Galleria La Bertesca di Genova, poco prima della partecipazione alla rassegna di Amalfi Arte povera più azioni povere.
Faredisfarerifarevedere era una mostra che evidenziava allora, come lo risignifica oggi, il senso di un procedere nella scultura che decostruisce il linguaggio per attingere una nuova possibilità di forma attraverso l’esplorazione della dimensione temporale del proprio esserci. Opere come il Cuborto, il Cumulo rete, Head X – Ray e la Tenda nera, che oggi diventa Tenda, azzurra, sovrappongono spazi e tempi, tracciando una traiettoria percorribile in un duplice senso.
Il Cuborto e il Cumulo rete sovvertono la perentorietà e la rigidità della forma geometrica e della sintassi minimalista; mettono in crisi, con un tocco di ironia, l’assertività e la rigidità del metallo, che si fluidifica e diventa possibilità di non-forma. Definito da Icaro come «un aborto di cubo», «una misura per errori volumetrici», il Cuborto è presente in mostra anche nella sua essenza, un piccolo esemplare d’oro di misura di 1 centimetro cubo, che diventa canone e misura eccentrica per definire lo spazio come «luogo» della scultura. In esso ciascuna opera e azione scultorea non è presentata nella distanza della storia ma immessa in una narrazione declinata al presente, in cui la definizione di reenactment diventa possibilità di riscrivere il lavoro affinché esso possa infondere una rinnovata e incisiva visione politica nel presente.
Questo lo si può cogliere nella Tenda, azzurra che evidenzia la propensione a ripensare la scultura come «misura-distanza», ovvero come autobiografia ed esperienza correlata al vissuto. La Tenda, azzurra è un filtro che fa perdere i punti di riferimento a chi si addentra nello spazio della mostra e lo conduce a compiere un’esperienza fenomenologica attraverso uno scavo continuo nelle proprie emozioni, nei propri ricordi, nel proprio vissuto. Questa scultura performativa consiste in un telo di polietilene trasparente, collocato dal soffitto al pavimento a creare uno stretto corridoio a forma di U, dipinto dall’artista, sino all’altezza massima raggiunta con le sue braccia tese oltre la testa, per attingere uno spazio «altro»: il luogo dell’intimità. Nella prima versione esposta alla Bertesca il telo era dipinto di nero. In mostra a Napoli Icaro ha sostituito il colore nero, così calato nella radicalità dei rivolgimenti sociali e politici del ’68, con l’azzurro intenso – orizzonte di luce che dischiude una nuova dimensione visionaria al lavoro, riattualizzandolo e conferendogli il senso del divenire, nella possibilità di risignificare la sua «politica dell’esistente» nel presente.
Il blu è per Icaro il colore di Napoli, che si riverbera in mostra anche nella Scatola di Amalfi. Nel 1968, al ritorno a Genova dopo la rassegna Arte povera più azioni povere, l’artista aveva costruito una scatola di legno per disporre una serie di cartoline acquistate ad Amalfi, in modo da catturare, nel suo ricordo, l’azzurro intenso del cielo e del mare del Sud.
Con le sue azioni Icaro attiva costantemente la dimensione autocritica (e mai celebrativa o autocelebrativa) della scultura; sollecita a pensare alla responsabilità del gesto scultoreo che diventa altresì spazio di condivisione, a livello fisico e mentale, nel duplice scambio che si istituisce tra artista e fruitore. Facendo esplodere nello spazio della mostra una piccola Forma di spazio (gabbietta di legno e filo realizzata tra il 1966 e il 1967 a New York come esercizio germinale per esperire un nuovo concetto di scultura ambientale), immerge i visitatori e le visitatrici non solo all’interno dello spazio dell’opera, ma nel processo stesso del fare, con il ricorso al video che diventa esso stesso medium scultoreo e parte integrante dell’esperienza spaziale e temporale dell’opera.
Riattualizzando ancora una volta un’azione-scultura presentata nel ’68 nella rassegna romana del Teatro delle mostre, il cui titolo era Buchi 1.000.000 + 1, Icaro attraversa lo spazio espositivo con un telo di polietilene trasparente e fustellato – una superficie diafana e trasparente, campo possibile di intervento per il visitatore, che può strappare i singoli tasselli dell’opera come fossero francobolli, sino ad arrivare alla dissoluzione totale del lavoro nella temporalità circoscritta della mostra. Strappare è un’azione «continua, individuale, anonima», come l’ha descritta l’artista. Un’azione che mette in relazione la dimensione cosmica infinita, evocata dalla misura di «1.000.000», con l’individuo, l’«1»: il singolo con il tutto, l’inizio e la fine.
Icaro traccia una traiettoria continua di relazione tra la Storia e la propria storia personale, tra la Misura e la propria misura corporea, facendo della scultura qualcosa che ci trascorre accanto nel tempo della vita e che, come noi, si modifica nel tempo. La mostra diventa così possibilità di esplorare il divenire, necessità di esperire il senso della scultura come processo attivo, ricordandoci, come ha scritto Hannah Arendt ne La vita della mente, «che noi siamo del mondo e non semplicemente in esso», che anche noi «siamo apparenze, proprio in virtù del nostro arrivare e partire, apparire e scomparire», per «prendere parte al teatro del mondo».

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