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Ibrahim Maalouf, vibrazioni mediorientali di una tromba jazz

Ibrahim Maalouf, vibrazioni mediorientali di una tromba jazzIbrahim Maalouf

Intervista Incontro con il musicista franco-libanese dopo il concerto per l'anteprima del Roma Jazz Festival (2-26 novembre)

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 18 ottobre 2023

Campeggia sulla copertina dell’ultimo numero di «Musica Jazz» il trombettista franco-libanese Ibrahim Maalouf, sulle scene jazz dal 2007, una star in Francia ed in Europa. Il suo recital in duo A Few Melodies si è rivelato una spumeggiante anteprima per il Roma Jazz Festival (2-26 novembre). Nel concerto alla Sala Sinopoli ha spesso coinvolto il chitarrista François Delporte e il pubblico all’interno dei suoi brani, smontandoli, suonando piano e tromba. In effetti la sua tromba (4 pistoni, in grado di eseguire i quarti di tono) ha un suono e un fraseggio meravigliosi, gravidi del dolore (e della gioia) della dimensione mediterranea e mediorientale al pari della solarità di Satchmo o dell’effusiva complessità del jazz. Evoca al piano (suo primo strumento) la cantante egiziana Oum Kalthoum e con la tromba proprio Louis Armstrong, nel gioioso brano Happy Face. Il trombettista si dimostra affabulatore dal gusto teatrale e dalla vena comico-ironica: fa il vocal coach per tutta la sala, scende in mezzo al pubblico suonando, fa cantare tutti. Maalouf ha dichiarato a «Musica Jazz» di prediligere un’identità mutevole, espressa nei suoi 18 album tutti molto diversi tra loro (dalle diaspore contemporanee al femminismo di Kalthoum). Durante il live evita riferimenti al presente, ma di certo il suo concerto-spettacolo romano è attraversato da un senso profondo di umanità, da una missione quasi terapeutica della musica in una dimensione parallela. Vivi e uguali a cantare (e suonare) insieme in una sala, mentre altrove si muore e si uccide… Questa la «magia» di Ibrahim Maalouf. Impegnatissimo, ha risposto a qualche nostra domanda.

L’album «40 Melodies» (2020) include molti ospiti, da Sting a Marcus Miller, e ci sono brani significativi per la sua carriera. Ce ne può parlare?

Ho voluto rivisitare 40 ricordi attraverso le musiche che mi rammentano i momenti in cui li ho vissuti. In un certo senso, è come aprire un libro fotografico dopo un po’ di tempo, e ricordare tutti quegli eventi importanti.

Pensa che sia ancora interessante percorrere una strada che preveda sovraincisioni e campionamenti?

In generale considero le tecniche di campionamento e sovraincisione come parte di una massa gigantesca di opportunità per creare, ricreare, inventare musica in modo infinito e senza limiti. Secondo me questo è altrettanto importante, o forse anche più importante, degli strumenti stessi. E, ad essere sincero, apprezzo tutte le possibili opzioni, purché si tratti di creare qualcosa di nuovo.

Il suo stile di tromba trae ispirazione dalla musica araba, dal jazz, dalla canzone popolare, dalla musica latina… Come riesce a mettere insieme tutte queste influenze senza essere postmoderno?

Non so esattamente cosa significhi per te il postmoderno, ma non ho mai pensato alla musica come a qualcosa che deve essere definito in termini di stile. Faccio sempre del mio meglio per creare musica che rifletta esattamente chi sono. Nonostante tutte le categorie, gli aspetti tecnici, le definizioni culturali… in fin dei conti, stiamo parlando di emozioni.

Lei è nato a Beirut nel 1980, nel 2007 ha realizzato autoproducendosi l’album «Diasporas», nel 2015 la suite dedicata a Oum Kalthoum. Oggi il Medio Oriente è in fiamme, dalla Siria a Israele, attraversato da guerre e terrorismo. Nella musica c’è una possibilità di pace e connessione?

Non so davvero quanto la musica possa effettivamente influenzare le persone, se non attraverso le emozioni. Ma anche se alcune saranno toccate, altre purtroppo non danno la priorità ai sentimenti. Vogliono solo usare il cervello per combattere. È senza speranza. La musica può guarire le persone e può forse provare a renderle esseri umani migliori. Ma non può trasformare l’acqua marcia in un ottimo vino.

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