Iaia Forte, in «Cinemamuto» ritrovo l’arte di Elvira Notari
Intervista L'attrice racconta lo spettacolo di Gianfranco Pannone in cui interpreta la regista oscurata dal fascismo, da stasera al 19 maggio al San Ferdinando di Napoli
Intervista L'attrice racconta lo spettacolo di Gianfranco Pannone in cui interpreta la regista oscurata dal fascismo, da stasera al 19 maggio al San Ferdinando di Napoli
Elvira Coda Notari nacque a Salerno nel 1875. Ha firmato circa sessanta lungometraggi di «cinema verità», di cui ci sono rimasti pochi frammenti, raccontando la Napoli cruda di inizio Novecento, sventrata dal Risanamento, assediata dal colera e dalla povertà. Col marito fotografo fondò la Dora Film, una delle prime case di produzione partenopee, e scuola di recitazione. I suoi film sbancarono i botteghini oltreoceano, mentre venivano bloccati dalla censura fascista che ne ha oscurato la memoria, fino a una recente riscoperta. Lo Stabile di Napoli le rende omaggio con Cinemamuto, in scena da stasera fino al 19 maggio al Teatro San Ferdinando, regia di Gianfranco Pannone, con Andrea Renzi censore e Iaia Forte nei panni di questa cineasta pioniera del cinema. La intervistiamo qualche giorno prima del debutto.
Com’è nato il lavoro e cosa vi ha spinto a questo progetto?
Anni fa Giuliana Bruno, scrittrice napoletana che vive negli Stati Uniti, dove insegna Cinema, mi mandò il suo libro Rovine con vista dedicato a Elvira Notari. Non la conoscevo, ne parlai con Pannone che voleva farne un documentario, alla fine è diventato uno spettacolo. È stata la prima regista donna in Italia: riprendeva dal vero, raccontava il popolo. Non solo si è assunta il ruolo di regista, produttrice, insegnante di recitazione e sceneggiatrice, ma ha dimostrato grande capacità imprenditoriale. Il marito era solo direttore della fotografia. Due aspetti mi hanno impressionata: l’oblio in cui è caduta e il fatto che abbia smesso di lavorare a causa della censura fascista. Le imposero così tanti limiti che alla fine non riuscì più a difendere la sua arte. Nonostante abbia lottato, è morta nella dimenticanza. Nel nostro piccolo credo sia un dovere rendere omaggio alla memoria di chi rappresenta ancora qualcosa di sensato. Ringrazio Roberto Andò che, da uomo di cinema e di teatro, ha capito l’importanza di darle voce. Inoltre riconosco in lei l’appartenenza a quel ceppo matriarcale di donne del meridione, fisionomie di personaggi femminili che troviamo anche nel teatro di Eduardo: battagliere, toste, implicitamente femministe.
La censura a cui Elvira Notari è stata sottoposta è il cuore di questo lavoro, che ci richiama amaramente i nostri giorni.
Lo spettacolo si svolge all’interno del Ministero dove Andrea Renzi interpreta il censore napoletano Leone. In scena vengono letti documenti reali, è stato bravo Roberto Scarpetti, che firma la drammaturgia, a centrare l’idea su questa progressiva erosione della creatività. Iniziano a chiederle di eliminare le didascalie in napoletano: occorre «unificare la lingua». Poi il divieto di raccontare i problemi reali della gente, sotto il regime doveva essere tutto edulcorato, come il cinema dei telefoni bianchi, mentre lei faceva un cinema reale, anche violento. «Togliendoci la nostra lingua ci togliete la voce, e chi non ha voce non può più farsi sentire», dico a un certo punto in scena. Sono incredibili le coincidenze col nostro presente: penso alle giornate che stiamo vivendo, ai giornalisti Rai in sciopero perché il monologo di uno scrittore è stato censurato. È molto interessante l’esperienza che lo spettatore può fare rispetto a quanto la censura sia qualcosa di allucinante, che depreda gli esseri umani della loro possibilità espressiva. Stiamo correndo un pericolo enorme, neanche più tanto sottile, ma evidente, di manipolazione dell’informazione, del principio di realtà.
Nel campo dell’arte non sembra essere cambiato molto per le donne. Penso anche agli ultimi David di Donatello.
Il miglior discorso ai David l’ha fatto Justine Triet, dando il giusto merito a un’artista come Alice Rohrwacher. È vero che per una donna è più complicato far valere la propria visione. Quando si fanno progetti personali, si fa più fatica a imporsi. L’attrice è un lavoro femminile. Ma se, a cinema o a teatro, devi fare una regia o esprimere un punto di vista, si hanno maggiori difficoltà. Lo dico senza retorica, che detesto: è un dato di fatto.
Hai iniziato la tua carriera con figure di «teatro totale» come Leo De Berardinis. L’arte ha una funzione politica? Può averne ancora oggi?
L’arte in sé è politica. Se non cambia il mondo, può illuminarne certi aspetti occulti. Adesso, nonostante abbia un’anima romantica e creda alla funzione civile e poetica dell’arte, mi sta passando un po’ la voglia di fare questo lavoro. Anche nel teatro, siamo costretti a consegnare dei prodotti di consumo. E pure rispetto ai testi sono tempi duri. La richiesta è sempre più orientata all’intrattenimento. Ho avuto il privilegio di lavorare con registi che si ponevano il problema di tutelare l’altezza del teatro. Leo, Carlo Cecchi, Teatri Uniti, Ronconi non hanno mai ceduto all’idea di arte come intrattenimento. Questa terribile legge Franceschini ha mutilato il teatro, gli Stabili sono costretti a produrre produrre, produrre in un’ottica di consumo immediato. Anche questo spettacolo, dopo tanti sforzi, morirà qui. Mentre noi veniamo dal teatro di repertorio in cui lo spettacolo cresce replica dopo replica nella verticalità della relazione col pubblico.
Elvira Notari è una donna che non ha accettato compromessi: quanto Iaia Forte si rispecchia in lei?
Penso a Fantasia e’ surdato, il film con cui si chiude la sua carriera, di cui si vedono alcuni spezzoni nello spettacolo: ha dovuto rimontarlo, stravolgerlo. Nell’ultima scena il censore la esorta a far firmare la regia al marito, così da avere più possibilità di ottenere il visto. Questo significherebbe venir meno a tutto ciò per cui ha lavorato. Decide di essere fedele a sé stessa, firmando quella che sarà la sua ultima regia. Essendo una grande appassionata di Elsa Morante – sono orgogliosa che Carlo Cecchi mi abbia dato la possibilità di leggerla e interpretarla in pubblico – credo che la pratica della verità sia una pratica di individuazione del sé. Se penso a certe forme, a volte considerate femminili, di mediazione, di edulcorazione, di strumentalizzazione della verità a proprio favore, provo disagio. Io cerco di aderire ai miei pensieri.
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