I voti ci sono,Verdini pure. Tra fischi e banconote al vento
Senato I sì alla riforma I sì sempre tra i 171 e 172, come previsto dall’ex berlusconiano D’Anna. E al momento dell’approvazione finale saranno molti di più, secondo qualcuno arriveranno addirittura a sfiorare i 190
Senato I sì alla riforma I sì sempre tra i 171 e 172, come previsto dall’ex berlusconiano D’Anna. E al momento dell’approvazione finale saranno molti di più, secondo qualcuno arriveranno addirittura a sfiorare i 190
«Questa è la riforma della Costituzione Renzi-Verdini»: Peppe De Cristofaro, Sel, rigira il coltello nell’unica ferita che deturpa la vittoria piena del premier. Non è finita. Ci saranno altri momenti incandescenti, nuovi passaggi a rischio. Il più pericoloso sarà sull’articolo 21: materia del contendere le modalità di elezione del capo dello Stato. Ma si può scommettere che si ripeterà la sceneggiata degli ultimi due giorni. Roberto Cociancich, il presidente degli scout cattolici che come hobby falcidia voti segreti, ha già presentato l’apposito «canguro». Renzi la spunterà ancora su tutti i fronti.
I voti a favore sono stati sempre tra i 171 e 172, esattamente come previsto dall’ex berlusconiano conquistato da Verdini Vincenzo D’Anna. Non sono pochi: sorpassano di una decina e passa la maggioranza assoluta e offrono la prova provata che la riforma sarebbe passata anche senza la resa della minoranza Pd. Però gli esperti scommettono che al momento del voto finale i sì saranno molti di più, secondo qualcuno arriveranno addirittura a sfiorare i 190. Un po’ perché non ci saranno le assenze degli ultimi giorni, un po’ perché l’arrembaggio al carro del vincitore, anzi al taxi guidato da Verdini che verso quel carro traghetta i profughi della destra, è in pieno svolgimento.
I dissensi nel Pd non sono andati oltre quei tre voti ampiamente preventivati: Felice Casson, Corradino Mineo e Walter Tocci. Nell’Ncd, nonostante gli sfracelli minacciati, nemmeno quelli. Nessun voto contrario, tutt’al più qualche assenza strategica destinata probabilmente a rientrare nel voto finale.
Ciliegina prelibata sulla torta di don Matteo, la resa incondizionata e totale del presidente del Senato. Arrivato alla stretta decisiva, con le debite pressioni esercitate sino all’ultimo secondo dalla ministra Boschi, Piero Grasso ha abbandonato ogni resistenza, senza curarsi più neppure di salvare le apparenze, e ha lasciato mani totalmente libere alla maggioranza e al governo. Cociancich, l’uomo-canguro, giura di essersi scritto da solo gli emendamenti killer, ma in aula sia Loredana De Petris, Sel, che Maurizio Gasparri, Forza Italia, hanno detto apertamente quello che tutti i senatori si ripetevano nei corridoi, cioè che dietro non quegli emendamenti ma dietro l’intera strategia della maggioranza in aula ci sono direttamente i funzionari del Senato. E se la vox populi, come spesso capita, ci piglia, il fatto non sarebbe certo possibile senza l’assenso del presidente di palazzo Madama.
Resta appunto solo una ferita aperta: il ruolo determinante di Denis Verdini e della sua truppa mercenaria. Certo, il voto sulla riforma non comporta l’appartenenza a una maggioranza, però quando ieri il capogruppo Barani ha annunciato il voto a favore confermando tuttavia che «noi restiamo all’opposizione», gli ex compagni azzurri si sono scatenati in una gara di fischi, i leghisti hanno sventolato banconote, i pentastellati hanno rumorosamente segnalato al Pd, minoranza inclusa, quali sono i nuovi compagni di strada. Ma gli stessi senatori di Renzi, pur sforzandosi di restare seri, sapevano perfettamente che si trattava di una barzelletta.
Certo, il voto di Verdini non è stato sinora e non sarà in futuro determinante. Però senza quei voti, senza la garanzia che la riforma sarebbe stata comunque approvata grazie agli ascari del fiorentino, la rotta della minoranza Pd non ci sarebbe stata, o almeno sarebbe stata meno totale e sgangherata. La cambiale arriverà inesorabilmente a scadenza, e si sommerà alla necessità di offrire una zattera ai naufraghi dell’Ncd. In Parlamento quei rinforzi sono preziosi, fuori dal palazzo potrebbero rivelarsi esiziali. Secondo un già celebre sondaggio della Ghisleri, che ieri a palazzo Madama era sulla bocca di tutti, l’alleanza con Verdini e Alfano costerebbe al Pd addirittura il 7% dei consensi, facendolo precipitare al 25%. Certo, quel sondaggio è in qualche misura drogato. Parla di «partito della nazione», mette Renzi e Verdini quasi sullo stesso piano. I risultati, di conseguenza sono probabilmente esagerati. Ma, anche se in dimensioni meno rovinose, il patto col diavolo che il premier ha scelto di firmare per garantirsi la vittoria rischia comunque di costare parecchio in termini di voti.
Qualche prezzo dovrebbe pagarlo anche per aver modificato la Costituzione con i trucchi e i carri armati, a colpi di canguramenti più o meno super, di violazioni del regolamento consentite senza pudore da Piero Grasso, di aggiramenti sfacciati di ogni voto anche solo potenzialmente minaccioso. Ma con un sistema mediatico genuflesso o intimidito e con l’alibi incautamente offerto da Calderoli e dai suoi milioni e milioni di emendamenti, su quel fronte Renzi è certo di riuscire a evitare ogni ritorno d’immagine dannoso. Ma nascondere Verdini, Alfano e tutti gli altri, quello è un altro paio di maniche.
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