Federico Italiano è probabilmente il poeta meno italiano e più europeo tra quelli nati tra gli anni ’70 e ’80. Poliglotta, ricercatore presso l’Accademia austriaca delle scienze di Vienna, notevole traduttore (soprattutto del poeta tedesco Jan Wagner, ma anche di Raoul Schrott e Lutz Seiler), curatore insieme allo stesso Wagner di una preziosa antologia della nuova poesia europea che ospita testi scritti in 47 lingue (Grand Tour, Hanser 2019), Italiano pubblica oggi per Donzelli il suo quinto libro di versi, La grande nevicata (pp. 84, euro 15).

SIN DAGLI ESORDI i testi di questo poeta si sono distinti per la loro straordinaria capacità prensile e inclusiva: fondali lontani e talvolta peregrini, culture occidentali e orientali, uccelli e insetti precisamente nominati, realtà di non immediata decifrazione (in questo libro, per esempio: lemniscate, occhiocotto, monocotiledoni, mejadra…). Non fa eccezione quest’ultima opera, forse più delle precedenti influenzata dall’esperienza di traduzione da Wagner (cui è dedicata una poesia), in cui Italiano costringe il lettore a schiodarsi dalla geografia conosciuta per percorrere lo spazio e il tempo: dal Mediterraneo a Gerusalemme; da Vilnius a Khodovarikha, sul Mar di Barents, dove lavora Il meteorologo protagonista della penultima sezione; dal palazzo del Conte Tolstoj in cui (forse) morì Gogol’ (leggere la bella La morte di Nikolaj Gogol’ per capire l’avverbio) a Milwaukee, dove nel 1936 fu inaugurato il treno Green Diamond.

Poesia erudita o intellettuale, quindi? No, perché su questo asse orizzontale e planetario Italiano innesta un viaggio verticale nella memoria e nella coscienza individuali: La grande nevicata è quella del 1985, quando l’autore aveva 9 anni, e da quell’evento che ha lo stesso potere di radianza di quelli storici ricordati poc’anzi si sprigiona una serie di testi che proiettano chi legge in una galassia di immagini, oggetti, eventi che hanno quasi la forza di un’intermittenza del cuore: «la giacca a vento rossa con le piume d’oca», gli Walkie-talkie («Un crepitio, un rumore bianco, un codice/ segreto»), la zuppa inglese preparata dalla madre, la repellente Barbabietola da ingoiare a forza («innervosito ammasso purpureo/ scintillante, vibrante»), il passamontagna.

Come quella dell’amico Wagner, la poesia di Italiano imbastisce una galleria di immagini di straordinaria concretezza e sapidità, ereditando dall’immaginazione del bambino immerso nella Grande Neve la capacità di far parlare gli animali (vedi il corvo della poesia iniziale, che osserva chi scrive e lo saluta così: «Entra pure in casa/ con le borse ricolme della spesa/ io ti aspetto qui fuori») o di fondere cose lontane in metafore sorprendenti e mai inerti («spilli/ di freddo nelle mani», il sole pomeridiano che brandisce «l’ascia delle tre», la cicatrice bianca del padre caduto da un albero trasfigurata in «una nuvola, il terrapieno di una ferrovia/ che trafora / i boschi sopra Santa Lucia/ uno sparo, un’eco inestinguibile/ come una voglia, il fumo della canna/ di un fucile»).

CON QUESTO LIEVITO dell’immaginazione, che a tratti fa venire in mente Govoni, Italiano impasta un altro ingrediente fondamentale e tutto suo: il rispetto della forma. Ogni poesia aderisce a un modello unico e mai scontato (strofe di tre, quattro, otto versi con vincoli sillabici e grafici: per esempio settenari o rientri, anche successivi), inseguendo generi poetici o musicali (l’haiku in Il fiume, o la Passacaglia in verde minore) senza accontentarsi mai né di un’unica forma, né dell’informale o della prosa. Non è di certo la ricetta più praticata dalla poesia di questi decenni, e anche questo rende Italiano una delle voci più riconoscibili e più sicure del panorama.