Commentando un poesia di Paul Celan, Mario Pezzella definisce subito che cosa sia un vuoto del tempo: «un vuoto di tempo (zeitlücke) è quando le sue dimensioni tacciono». Se il tempo è infatti il precipitare del futuro nel passato, il presente è una puntualità in cui vibrano, risuonano, sono compresenti le dimensioni del passato e del futuro. «Il presente è l’incrocio nell’attimo di vibrazioni in senso quasi musicale che sempre più indistintamente si prorogano dal passato e verso il futuro; vibrazioni in senso quasi musicale, come in un diapason, il cui suono si dilata e si attenua lentamente, prima di spegnersi, intreccio del suono appena udito e attesa di quel che è per venire».

MA NELLA POESIA di Celan, che Pezzella, nel suo libro Nel vuoto del tempo (Rogas Edizioni, pp, 240, euro 21,70) utilizza per indagare la crisi della coscienza europea negli anni venti e trenta del Novecento, ciò che emerge è invece il contrario del tempo/diapason. È un tempo muto, congelato, abbacinato dal presente, istupidito e catturato da esso. Un tempo del genere appartiene a una mente che, a sua volta, s’è resa muta a se stessa. Perché, senza passato e senza futuro, s’è fatta incapace di interpretare il presente nella sua effettiva realtà, avendo perduto l’abilità di vederlo e ricondurlo alla propria specifica e individuale collocazione nel mondo, alla propria prospettiva di parte storica e sociale, al più proprio personale progetto di vita.
È una mente cioè che, estraniandosi dalla propria interiorità, s’è fatta mente della sola superficie, costretta a vivere e percepire il mondo se non nelle sue scenografie più estrinseche e, appunto, superficiali.
Con questa originale riflessione sulla temporalità Mario Pezzella (che è filosofo, esteta, studioso e critico del cinema, direttore della rivista Altraparola e anche valido poeta sotto lo pseudonimo di Mario Tomai) tenta di riscostruire quella che è potuta divenire la condizione della coscienza diffusa europea di fronte al dilagare dei totalitarismi nazi-fascisti.
Attraverso autori di varia natura letteraria come Paul Celan, Thomas Mann, Krakauer, Walter Benjamin, Céline, René Char, e registi come Bellocchio (con il film Vincere) e Aleksandr Sokurov, l’autore, utilizzando assai bene le sue varie competenze, mette in scena il fascismo prima come insorgenza di uno stato d’animo che come formazione politico istituzionale.
Così, citando il saggio di Walter Benjamin Strada a senso unico, dove si descrive lo stato d’animo diffuso, l’inconscio collettivo della popolazione (sopratutto di ceto borghese) in Germania durante la crisi della Repubblica di Weimar, Pezzella può descrivere come lì abbia agito una crisi della capacità di coscienza che si è consegnata, in una caduta radicale di storicità e di storicismo, alle forze irrazionali del totalitarismo.

PERCHÉ IN UNA CONDIZIONE storica e sociale di emergenza, in un tempo di catastrofi (com’è stato quello della Germania e anche dell’Italia del primo dopoguerra) ciò che è potuto accadere alla psiche collettiva è stata appunto una chiusura del tempo, una patologia della mente che, schiacciata e dominata solo sul presente, s’è impedita riflessioni per ogni agire capace. Finendo con l’irrigidirsi in quella dialettica di impotenza/sovrapotenza che struttura l’antropologia di ogni totalitarismo.
«Disperata ebbrezza immaginaria» definisce infatti Pezzella lo stato di patologia mentale generalizzata di cui soffre e vive l’inconscio collettivo sotto il fascismo e il nazismo (vedi le pagini su Benjamin e Bellocchio) perché rimuove la catastrofe, e le crisi del reale e l’impotenza che si genera nell’affrontarle, nella sovravalutazione estremizzata di capi, di individualità, di complessi di idee semplificate e ridotte a slogan, a cui si attribuisce il pluvalore dell’assoluto, dell’assolutamente vero, certo, bello e buono.

MA, A BEN VEDERE, il testo dell’autore, raffinato com’è nella costruzione dei concetti e nella resa linguistico-letteraria, scrive del passato per estrarne una metafora assai ancor più valida oggi per il nostro presente. La sua vuole essere anche e soprattutto una riflessione sull’età delle catastrofi (geopolitiche, sanitarie, culturali) cui la nostra umanità è ormai entrata a motivo della sussunzione e della cattura di tutte le forme di vita, individuali e collettive, sotto il segno e il comando dell’economia capitalistica. E dove non può che riproporsi drammaticamente quella chiusura del tempo della mente di cui sopra.
Ricordandoci che, anche qui, per il superficializzarsi del loro esperire, le individualità contemporanee – estenuate e svuotate dalla vita accumulativa del capitale – possono trovare compensazione alla loro astrazione di vita o nella cattiva infinità dell’infosfera e di un mondo solo virtuale e/o nella celebrazione grottesca e nell’adesione politica a personaggi di culture della superficie, dall’estremismo arcaico e dal manicheismo incolto e agghiacciante.