«Nick era stranamente fuori dal tempo. Quando eri con lui, avevi sempre l’impressione che fosse nato nel secolo sbagliato. Se fosse vissuto nel Seicento, alla corte elisabettiana, insieme a compositori come John Dowland o William Byrd, si sarebbe trovato a suo agio. Era elegante, onesto, un romantico perso, ma allo stesso tempo molto cool. In breve, un elisabettiano perfetto». Sono parole di Robert Kirby, l’arrangiatore di Nick Drake.

Drake viveva nel tempo e nel luogo sbagliato: non a caso una delle sue ultime canzoni si intitola Place to Be. A leggerne il testo sembra che a parlare sia un uomo anziano, invece sono versi di un ragazzo di 24 anni. Ma per la generazione nata negli anni Quaranta, durante o subito dopo la Seconda guerra mondiale, 24 anni erano già un’età per sentirsi vecchi.

Parla della sua gioventù al passato anche John Lennon in Help, era il 1965 e di anni ne aveva 25. Ma mentre un ragazzo della classe operaia di Liverpool come lui cercava qualcosa che lo riportasse con i piedi per terra, davanti all’angoscia esistenziale Nick Drake, figlio dell’alta borghesia britannica, chiede di spiccare il volo come via di fuga. Si sente un rudere, un individuo menomato che non trova più il suo posto al mondo. Un posto che gli era stato assegnato per nascita.

IL DEBUTTO

Nicholas Rodney Drake nasce a Rangoon, Birmania, il 19 giugno 1948 in una famiglia dell’alta borghesia espatriata: padre ingegnere per la Bombay Burmah Trading Corporation, madre figlia di un funzionario dell’amministrazione britannica in India. La famiglia torna nel Regno Unito nel 1950: il debutto in pubblico di Nick avviene all’età di due anni sul piccolo palco della nave che li riporta in madrepatria. La famiglia si stabilisce a Tanworth-in-Arden, a pochi chilometri da Birmingham. Nick lascia casa presto per andare a scuola in convitto, poi come il bisnonno, il nonno e suo padre prima di lui, frequenta il Marlborough College dove eccelle negli sport e scopre la musica: suona clarinetto e sassofono, forma il suo primo gruppo e comincia a trascurare gli studi.

Vince una borsa di studio per il Fitzwilliam College di Cambridge, ma prima passa sei mesi a Aix en Provence, dove sperimenta cannabis e Lsd, suona come busker per le strade e con gli amici fa un’incursione in Marocco dove incrocia i Rolling Stones.

Quando va a Cambridge, ormai più che studiare letteratura vuole suonare. Qui nel 1967 conosce Robert Kirby e fa spesso la spola con Londra dove, durante un concerto alla Roundhouse, viene notato da Ashley Hutchings dei Fairport Convention che lo mette in contatto con Joe Boyd, titolare dell’etichetta Witchseason. Con lui Drake inciderà tre album – Five Leaves Left (1969), Bryter Layter (1971) e Pink Moon (1972) – ignorati da pubblico e critica. Tormentato da un disagio psichico insostenibile, aggravato dagli stupefacenti e dagli psicofarmaci che avrebbero dovuto aiutarlo, nel 1974 muore per overdose di medicinali. Sul giradischi aveva uno dei Concerti brandeburghesi di Bach, sul comodino Il mito di Sisifo di Camus. La lapide nel cimitero di St Mary Magdalene a Tanworth riporta i versi di From the Morning, da Pink Moon: «E adesso risorgiamo e siamo ovunque». La storia di Nick Drake sembra finire così.

Ma a casa di Rodney e Molly comincia ad arrivare una processione di Drakeys, fan devoti a cui loro regalano copie di nastri come souvenir. Nel 1979 la Island Records pubblica il cofanetto Fruit Tree; il suo nome viene citato da Peter Buck dei Rem, Robert Smith dice che i Cure prendono il nome da un verso di Time Has Told Me. Nel 1985 The Dream Academy gli dedicano Life in a Northern Town. Dagli anni Novanta in poi vengono realizzati documentari per la radio e la tv: nel 2004 Lost Boy ha come voce narrante Brad Pitt, grande fan come Heath Ledger. Nel 1997 esce la biografia scritta da Patrick Humphries: tutto quel poco che era possibile sapere su Nick messo nero su bianco con un eccellente e paziente lavoro di ricerca. Gli anni Duemila vedono una crescita esponenziale della sua fama, grazie anche a uno spot Volkswagen che stimola un sorprendente aumento di vendite di dischi negli Usa. Stessa cosa hanno fatto le colonne sonore di diversi film, tra cui I Tenenbaum di Wes Anderson. La sorella Gabrielle crea la Bryter Music con cui pubblica raccolte di cover, inediti e versioni tratte da incisioni casalinghe. Uno sfruttamento commerciale degli archivi di famiglia che ha portato alla pubblicazione anche di materiale extra musicale, come le canzoni e le poesie della madre Molly, e di una nuova biografia nel 2014.

Il successo forse avrebbe salvato Nick Drake, insieme a una cultura psichiatrica più evoluta. Perché non ebbe successo? «È per la voce? I testi, gli arrangiamenti?», si chiedeva. La voce è il suo primo incanto: carezzevole, perfettamente intonata, dal fraseggio personale che allunga le vocali mentre sotto si dipanano intricate linee di chitarra. Microfonata da vicino, sembra cantarti nell’anima. I testi sono elusivi, ma definiscono un universo poetico molto personale e allo stesso tempo universale, che apre vasti territori di riflessione. Nick Drake non ebbe successo perché era un uomo caduto sulla terra: Bon Iver, Damien Rice, Devendra Banhart sarebbero arrivati solo trent’anni dopo. Era già post folk in un’epoca di folk revival e cantautorato nascente.

Musicalmente onnivoro, amava Miles Davis e i Beach Boys, John Coltrane e João Gilberto, Graham Bond e Josh White, Tim Buckley e Brownie McGhee. Era molto inglese nel suo cosmopolitismo musicale che si spingeva oltre l’Atlantico, in Europa, Nordafrica e India sulle orme di Davey Graham; nei riferimenti letterari, dal pre-romanticismo di William Blake al modernismo di T.S. Eliot, con affinità elettive per John Keats e Wilfred Owen; nei richiami pastorali a un paesaggio anch’esso squisitamente inglese e al dissidio irrisolto tra campagna e città.

Amato e riverito dai musicisti più colti e sensibili delle ultime generazioni, da anni grazie a Joe Boyd, e recentemente anche a John Parish (con la partecipazione di Enrico Gabrielli), gli vengono dedicati omaggi molto rispettosi ed emozionanti. A settant’anni Nick Drake un posto dove stare ce l’ha: nella storia della musica dove oggi è perfino più attuale del suo mito Bob Dylan. Nel cuore di tutti i Drakeys.

COME SAREBBE OGGI?

«Quando ho visto il documentario Searching For Sugarman, durante la scena della folla di 10mila persone che in Sud Africa acclamano l’ingresso sul palco di un uomo creduto morto ho avuto una fitta al cuore. Nei miei sogni, Rodriguez è Nick che torna in vita e va in tour in auditorium stracolmi come Leonard Cohen». (Joe Boyd)

«A settant’anni, se solo ci fosse arrivato, immagino che sarebbe considerato uno dei migliori musicisti di sempre e che finalmente anche lui lo avrebbe saputo». (Vashti Bunyan)

«Sospetto che Nick Drake avrebbe subìto un processo di autorarefazione simile a quello di Mark Hollis dei Talk Talk. L’Inghilterra di oggi non ha più traccia di quel magnifico sentimento tenue incarnato dal signor Drake e se lui non avesse dato forfait alla vita, con molta probabilità avrebbe dato forfait al mercato musicale. Un elegante ko tecnico di uno dei più grandi pesi piuma della storia della musica». (Enrico Gabrielli)

«Nick a settant’anni lo immagino schivo, di poche parole. Lontano dai social e indignato per la Brexit. Barba e capelli lunghi, bianchi. Lo vedo in un festival all’aperto, nel verde. Tanta gente. Lui, il suo amico Kirby e tante chitarre già accordate, pronte a essere suonate magnificamente». (Roberto Angelini)

«Se Nick Drake fosse ancora vivo a 70 anni, non sarebbe Nick Drake». (Robyn Hitchcock)