C’è un’immagine che si incontra quasi identica alla fine del Prologo e poi in chiusura – nell’Epilogo – del recente volume di Roberto Galaverni, Carte correnti Nove lezioni sul senso della poesia (Fazi Editore «Le terre», pp. 672, € 25,00), quella del chiodo battuto con insistenza: «non ho fatto altro che battere sugli stessi chiodi», scrive Galaverni nelle prime pagine, ripercorrendo la propria attività critica; e verso il fondo, parlando di Marina Cvetaeva, è il linguaggio poetico in persona a «battere sul proprio chiodo», insomma a riflettere sulla propria natura. Forse il dettaglio non ha solo a che fare con uno stile critico – la frugalità, i modi affabili e la volontà comunicativa dell’emiliano Galaverni – ma potrebbe suggerire, implicitamente, qualcosa di più. Ovvero, che il poeta e il suo esegeta possono trovarsi spesso e volentieri alle prese – anche se da posizioni differenti – con lo stesso problema, con la stessa idea fissa appunto: l’intenzione di pensare la sostanza, la radice quadrata di questa «cosa che chiamiamo poesia».

Più ancora: la maniera in cui la poesia viene al mondo, insomma «il processo di costituzione del senso poetico». Per farlo, l’autore di questo libro ha scelto una serie di liriche esemplari, definite non a caso «poesie autoillustrative», che rendono cioè visibile la costruzione del loro significato. E bisognerà subito intendersi su quel sintagma che si insinua nel sottotitolo del volume: «il senso della poesia». Meglio cancellare un po’ dell’alone prezioso e vagamente esistenziale che sembra aleggiargli intorno. Il «senso della poesia», per Galaverni, sarà piuttosto un problema di rapporti: diciamo, approssimando un po’, che è il modo in cui la formalizzazione dei contenuti si incarna nella struttura di una poesia, quella che potremmo definire la sua condizione di necessità. Il motivo per cui qualcosa, nel linguaggio «ricco e strano» dei versi, è detto in un certo modo: l’unico possibile.

Le poesie convocate sono nove: non che il libro si proponga di imporre un canone, ma vorrà pur dire qualcosa che l’unico poeta gratificato con due liriche sia Eugenio Montale (L’anguilla e Barche sulla Marna), e che il sigillo finale sia affidato al milanese Milo De Angelis (fra il 1939 delle montaliane Occasioni e il ’99 della Cartina muta deangelisiana si tratteggia con discrezione, insomma, una certa idea – e magari una certa nostalgia? – di Novecento). E vorrà pur dire qualcosa, ancora, il fatto che insieme a nomi collaudatissimi (oltre ai due già menzionati ci sono i maestri Andrea Zanzotto, Vittorio Sereni, Franco Fortini e due piccoli classici contemporanei come Fabio Pusterla e Valerio Magrelli) spunti anche un poeta che ha un suo culto fra gli addetti ai lavori, ma è certo meno noto e fortunato, il marchigiano Remo Pagnanelli con il suo Cimitero di guerra.

Ogni singola poesia è passata anzitutto al setaccio dell’analisi testuale: la si ascolta, la si esamina da vicino (si veda, per stare a un solo esempio, come il lettore venga preso per mano e accompagnato insieme all’io poetico «in riva al fiume» di una splendida poesia sereniana, La malattia dell’olmo); si dedica la giusta attenzione, di volta in volta, alla sua conformazione stilistica. Galaverni ci ricorda sempre che la poesia è questione di fatti – e siano pure fatti linguistici – prima che di astrazioni. E basterebbe ripercorrere, per mostrarlo, la messe di espressioni saldamente concrete impiegate a descrivere il testo poetico: la sua «presenzialità», la sua «autosufficienza organica», l’«autosufficienza oggettuale del congegno poetico», ecc., tutte determinazioni che si riferiscono infatti a quello che è ribattezzato «corpo testuale» o, molto esplicitamente, «manufatto-poesia».

Ma questo stesso manufatto si rivela, infine, un ricchissimo caleidoscopio: dal singolo testo si passa con scioltezza all’intero sistema autoriale, così che ciascuna di queste letture è anche, piuttosto miracolosamente, una specie di testo-panorama, uno sguardo d’insieme. Quasi sempre si allegano anche esempi raccolti volentieri oltre confine (si veda quante volte è chiamato in causa, a sostegno delle proprie tesi, un poeta-critico come Wystan Auden, o un altro grandissimo cui Galaverni ha più volte dichiarato e confermato il proprio amore, l’irlandese Seamus Heaney).

Nell’affermazione che «etica ed estetica» possano sovrapporsi fino a farsi «una cosa sola» risiede, mi pare, un nodo cruciale del lettore Galaverni: il quale non guarda mai al testo come uno scienziato esaminerebbe il proprio oggetto al microscopio. Si potrebbe dire, piuttosto, che Galaverni «senta» il testo, che la lettura di un testo poetico – nato da un’esperienza concreta – diventi essa stessa esperienza, vita vera. Non si osserva la poesia, piuttosto si conversa con lei: poesie come persone, verrebbe da dire pensando ancora una volta a un titolo di Sereni (non a caso trascitto anche sul risvolto di copertina).

Da questa attitudine – dall’implicazione profonda fra scrittura poetica e vita – dipende anche un altro fattore importante: il continuo riferimento, da parte di Galaverni, ai fondamenti antropologici della poesia («questa basilare necessità antropologica della poesia», si legge già in una delle primissime pagine, ma è un punto su cui si torna frequentemente). È questo, forse, il collante più forte tra tutti i pezzi che formano queste Carte correnti: la convinzione che la poesia, nelle sue più diverse declinazioni e realizzazioni, sottratta ai più vari giochi da laboratorio e alle più sperimentali officine, sia qualcosa che ha comunque a che fare con le abitudini, i desideri e i modi di stare insieme – non di rado con difficoltà – della specie che chiamiamo umana. Di questa nostra specie umana la poesia resta fra i giochi più «seri», con la sua fame di «significato», e certamente il più innocente e il più libero: qualcosa che sta a metà strada fra la preghiera e la magia, capace di servire a tutti – diceva Zanzotto – nel modo più incerto e fraterno, senza aver servito nessuno.