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I supermercati italiani producono 220 mila tonnellate all’anno di cibo da buttare

Corridoi lunghissimi stracarichi di prodotti di qualsiasi tipo, negozi sempre più grandi e labirintici in grado di soddisfare qualsiasi tipo di richiesta; in tema di spreco alimentare è inevitabile chiedersi […]

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 31 gennaio 2019

Corridoi lunghissimi stracarichi di prodotti di qualsiasi tipo, negozi sempre più grandi e labirintici in grado di soddisfare qualsiasi tipo di richiesta; in tema di spreco alimentare è inevitabile chiedersi quante sono e dove vanno a finire le inevitabili eccedenze di un sistema che ci ha abituati a d avere tutto, ma proprio tutto, sempre a disposizione.

Gli studi dedicati alla quantificazione degli sprechi nella fase di distribuzione (GDO) non sono molti, perché i dati contabili sono complessi e difficili da ottenere: il più recente e grande in Italia (e fra i più estesi anche in Europa) fa parte di REDUCE, un progetto sulla quantificazione dello spreco nelle diverse fasi della filiera , finanziato dal Ministero dell’Ambiente e coordinato dall’Università di Bologna; il Dipartimento di Economia dell’Università della Tuscia in particolare si è occupato della quantificazione degli sprechi relativi a 16 punti vendita di medie-grandi dimensioni distribuiti nel Centro-Sud d’Italia, seguiti in ogni reparto per un anno e mezzo fra il 2016 e il 2018.

La ricerca ha rilevato che ogni anno si sprecano 18,7 kg per mq di superficie di vendita, dato che se moltiplicato per il totale della superficie di vendita di supermercati e ipermercati italiani porta a una stima di 220mila tonnellate all’anno di cibo sprecato. I reparti dove si perde il quantitativo maggiore sono salumi e latticini, ortofrutta e panetteria. Le motivazioni di questo spreco erano in parte già note: gestione degli ordini, delle scadenze, guasti, e le promozioni, delle vere e proprie emorragie di spreco secondo il parere dei capi reparto; questi ultimi nel corso degli incontri con i ricercatori hanno fatto emergere anche motivazioni nuove, come il comportamento dei clienti e la massificazione, ovvero la creazione di «mucchi» di prodotti per invogliare all’acquisto.

Un altro dato interessante rilevato dallo studio è che il 35 % dei prodotti che vengono tolti dagli scaffali sono ancora idonei al consumo. In relazione a questo i punti vendita possono mettere in atto delle strategie anti -spreco come le donazioni a enti benefici e la riduzione del prezzo dei prodotti in scadenza. Lo studio quantitativo di un esperimento attivato a Viterbo ha mostrato gli effetti del recupero del cibo invenduto: per un supermercato di 5.300 mq sono stati recuperati in un anno 23,5 tonnellate di prodotti (valore 45 mila euro) che sono stati donati alla locale mensa dei poveri. Anche la strategia degli sconti pre-scadenza è risultata molto utile per ridurre gli sprechi: ma sembra che non faccia recuperare al punto vendita una parte significativa del valore dei prodotti sprecati, quindi che venga messa in atto è una scelta manageriale che dipende dal direttore e dall’autonomia del punto vendita. Come i progetti a scopo sociale, che oltretutto sono onerosi dal punto di vista organizzativo: indispensabile quindi la presenza di un ente terzo come un’amministrazione pubblica (caso di Viterbo), una fondazione, un’associazione di volontariato.

E dove va a finire tutto il cibo invenduto non recuperato? Ad eccezione dei prodotti speciali come carne e pesce, tutto finisce nei rifiuti solidi urbani. Che la quantità dei rifiuti prodotti sia più alta o più bassa a per il punto vendita cambia poco, perché la tassa sui rifiuti viene pagata sulla base dei mq che occupa. Questo aspetto secondo i ricercatori può alimentare un altro buco nero in relazione ai resi: cioè per ridurre i costi di trasporto, il distributore non si riprende tutti i prodotti ritirati dagli scaffali, ma li lascia smaltire al punto vendita, che non ha costi aggiuntivi. Un fenomeno molto difficile da individuare e quantificare.

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