Sono passati due anni dal primo sciopero nazionale della filiera Amazon in Italia, e gli effetti di quella giornata sono paragonabili a un movimento tellurico prolungato, ancora avvertito in Europa ed anche negli Stati Uniti, diventato oggetto di studio. Il motivo è intuibile: fino ad allora il colosso dell’e-commerce aveva sempre respinto il rapporto con le organizzazioni sindacali, adottando un sistema di relazioni dirette fra l’azienda e i singoli addetti. Il modello anglosassone insomma, che considera la difesa degli interessi collettivi attraverso il sindacato non necessaria, anzi da contrastare quanto possibile.

Fin dal suo arrivo in Italia nel 2011, l’azienda di Seattle aveva riproposto il “suo” modello, adottato ai quattro angoli del pianeta e basato sulla fidelizzazione dei dipendenti. Addetti assunti con la promessa di stipendi competitivi con la fascia più alta del settore della logistica e con la possibilità di acquisire competenze professionali da far valere nel tempo, in un settore di enorme espansione come quello dell’e-commerce.

Questa concezione si scontrava con la storia del movimento sindacale italiano e con gli stessi dettami costituzionali. Ma non è stato facile per la Filt Cgil adottare le contromisure, che si sono tradotte in un lavoro certosino da sindacato di strada, incontrando i dipendenti fuori dai cancelli dei grandi hub e dei magazzini. Facendo progressivamente capire che il sindacato non era inutile come da credo aziendale, anzi all’opposto era il solo strumento per mezzo del quale potevano essere migliorate le condizioni di lavoro.

Un lavoro diventato sempre più frenetico, con carichi moltiplicati dalla crescente diffusione dell’e-commerce, già prima ma in particolare durante e dopo la pandemia. Nel 2020 più di 18mila pmi italiane hanno venduto e distribuito i propri prodotti attraverso la piattaforma e oggi Amazon è leader con il suo 80% del settore logistica e-commerce, con oltre 43mila lavoratrici e lavoratori di cui 25mila impiegati nei magazzini tra dipendenti diretti e in somministrazione e altri 18mila addetti alle consegne fra diretti e in appalto. I “driver”, i corrieri che ogni giorno bussano alle porte di casa di migliaia e migliaia di clienti. Con quelli in appalto che sono stati fra i primi a denunciare, sindacalizzandosi, la sempre maggior insicurezza determinata dall’algoritmo che impone di essere sempre più veloci nelle consegne. Con i possibili incidenti tutti a loro carico.

Proprio la pandemia ha accelerato sia i ritmi di lavoro che erano già molto alti, che la capacità della Filt Cgil di catalizzare le denunce e le richieste di tutela sindacale da parte di un numero sempre maggiore di lavoratori Amazon. Dalle vertenze luogo per luogo, con il primo sciopero nel magazzino padovano di Vigonza nel febbraio di due anni fa, si è arrivati il mese dopo allo stop dell’intera filiera.

Lo sciopero storico del 22 marzo 2021, indetto da tutte le categorie confederali interessate, con presidi davanti agli hub e ai magazzini lungo la penisola, e con adesioni altissime, fino al 100% in alcuni luoghi di lavoro.

Le immagini delle lavoratrici e dei lavoratori Amazon in presidio, con i flash mob che bloccavano la circolazione dei furgoni e il servizio di smistamento dei pacchi, bloccando migliaia e migliaia di consegne, hanno fatto il giro del mondo, perché era la prima volta in assoluto che accadeva. Grazie al supporto dell’Etf (European Transport Federation) ci furono iniziative di sostegno in tutta Europa, e l’eco dell’agitazione arrivò fin negli Stati Uniti.

La multinazionale era costretta a trattare. E con l’accordo del 15 settembre 2021 è stato sancito il riconoscimento del sindacato nelle vertenze per ottenere i miglioramenti normativi e salariali chiesti dai dipendenti, a partire dal contratto nazionale della logistica e del trasporto merci. A seguire la mobilitazione dei 14mila lavoratori in appalto nella distribuzione, quelli dell’’“ultimo miglio”, ha portato a un secondo accordo, grazie al quale i miglioramenti economici e normativi sono stati estesi ai lavoratori a tempo determinato e in somministrazione. Con maggiori tutele anche per i corrieri, a partire dalla riduzione degli orari di lavoro. Insomma in Italia, ha tirato le somme la Filt Cgil, è emersa la possibilità di poter costruire un modello di relazioni industriali diverse da quelle che Amazon ha nel resto del mondo. Non c’è da stupirsi che l’esperienza italiana abbia finito per essere studiata all’estero.