Editoriale

I soldi fanno soldi, ma anche no

I soldi fanno soldi, ma anche no

Crisi strutturale Il tracollo delle borse e delle azioni bancarie segue la logica della speculazione finanziaria, che non è un’eccezione ma la colonna portante del capitalismo. L’economia di carta è 13 volte più grande di quella reale

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 21 gennaio 2016

Ci vuole poco a capire che le turbolenze sulle piazze finanziarie di mezzo mondo sono la conseguenza dell’irrisolta anarchia che regna nel «mercato dei soldi», la cui potenza ormai sovrasta enormemente quella delle cosiddette «economie reali».

Per rendere l’idea di cosa parliamo, basta questo semplice dato: nel 2014 il «valore» dell’economia finanziaria (o di carta) a livello mondiale ha toccato la cifra astronomica di circa un trilione di dollari (mille mila miliardi) contro un Pil globale (ricchezza materiale prodotta) di «soli» 78 bilioni (75 mila miliardi). Un rapporto di 13 a 1.

Quando si parla di «economia di carta», per di più, ci si riferisce per oltre il 90% ad attività speculative, ovvero a «giocate» finanziarie tese al massimo guadagno nel minor tempo possibile, che si fanno prevalentemente «fuori borsa», fuori dai mercati regolamentati, senza alcun controllo da parte delle autorità di vigilanza. Il che rende il quadro ancora più cupo.

Fosse solo una questione di «moneta virtuale», circolante in una sfera separata dall’economia reale e senza alcuna influenza su di essa, potremmo anche fregarcene. Il problema è che oggi, la finanza, senz’altro fondamentale per l’economia, è del tutto «governata» dalla speculazione, che, a sua volta, «governa» i processi economici «reali» e il mercato di beni e servizi.

Un esempio? In questi giorni si parla molto del calo del prezzo del petrolio, sceso per la prima volta da 13 anni a questa parte sotto i 30 dollari al barile. Trattandosi di un bene «materiale», per di più ancora indispensabile all’economia mondiale, la caduta del suo prezzo non potrebbe spiegarsi se non con un crollo della domanda, magari in conseguenza di particolari cambiamenti nella struttura produttiva dei principali Paesi importatori, ovvero con un aumento dell’offerta nel quadro degli equilibri geo-economici a livello globale. Invero, quest’ultima evenienza si è pure verificata, con l’ultima decisione dell’Opec di aumentare (di poco) l’offerta di greggio, nonostante il prezzo già molto basso dello stesso.

Una scelta pilotata essenzialmente dai sauditi, per strozzare la concorrenza di altri Paesi produttori, come quelli latinoamericani, che, tuttavia, ha molto poco a che fare col fenomeno che stiamo cercando di commentare.

Per capire quello che realmente sta accadendo, infatti, non si può che partire da un dato: ogni giorno si scambiano sul mercato circa 90 milioni di barili di petrolio (92,79 milioni la stima Opec per il 2016). Barili veri, petrolio vero. Al tempo stesso, sempre giornalmente, si scambiano oltre un miliardo di barili di greggio che costituiscono il «sottostante» di contratti «derivati». Barili virtuali, petrolio virtuale.

Cosa c’entra? C’entra che al giorno d’oggi il prezzo del petrolio è legato, prevalentemente, all’andamento del mercato dei derivati (futures), non a quello del petrolio in quanto tale.

Se a ciò si aggiunge, per completezza, che dei «soldi» (ovviamente, il riferimento non è alla carta moneta o alle monetine che usiamo per fare la spesa) in circolazione solo il 2% costituisce una «risorsa» per l’economia produttiva, si capisce come la frenesia speculativa, ciclicamente, possa «bruciare» non solo moneta virtuale, ma incendiare un intero sistema economico. Basta poco, è una questione di fiducia, di aspettative, di scommesse.

La fiducia, dunque. Come quella degli investitori nel sistema bancario italiano, scesa ai minimi termini nell’ultimo periodo. Si parla insistentemente di «crediti deteriorati» (non performing loans), di «sofferenze» bancarie per centinaia di miliardi di euro.

Ciò, nonostante il soccorso arrivato in questi anni da parte della Bce alle banche europee, mediante le ben note operazioni di rifinanziamento a lungo termine (Ltro e Tltro) e lo stesso Quantitative easing (Qe).

Se guardiamo al nostro Paese, infatti, colpisce principalmente un dato: gli istituti di credito hanno assorbito un quarto dei prestiti agevolati della Bce e stanno beneficiando della liquidità proveniente dal Qe, ma, stando alle stime fornite da Bankitalia, le sofferenze lorde, per l’intero sistema, hanno toccato ormai la cifra vertiginosa di 216 miliardi di euro (senza considerare i cosiddetti «incagli», circa 115 miliardi di euro di esposizioni nei confronti di soggetti in situazione di difficoltà oggettiva, sebbene temporanea, che potrebbero, da qui a poco, aggiungersi alle «sofferenze» propriamente dette), trenta miliardi in più rispetto a un anno prima, il 17% del Pil.

Perché? Troppo facile (o troppo comodo) spiegare tutto con la la crescita delle insolvenze per la crisi economica.

La verità è che negli ultimi trent’anni il credito (e di converso il debito) è stato il vero motore dell’economia, a compensazione della caduta dei redditi da lavoro e dei profitti da capitale (utile, a tal riguardo, una rilettura del concetto marxiano di «caduta tendenziale del saggio di profitto», soprattutto con riferimento agli effetti della rivoluzione informatica), in ragione della crisi del modello di accumulazione produttivista, che aveva segnato la storia economica del capitalismo nei primi tre decenni del dopoguerra.

Credito facile, insomma, per spingere i consumi, ma anche per creare denaro dal nulla a fini speculativi.

La cartolarizzazione dei crediti, in quest’ultimo caso, è stata, ed è, una delle fonti principali dei problemi che oggi abbiamo sul tappeto.

Un meccanismo che ha consentito alle banche di erogare prestiti ben oltre la loro capacità patrimoniale, mediante l’espunzione dai propri bilanci di quote sempre maggiori di crediti concessi, aggirando, in questo modo, i vincoli imposti dalle norme nazionali ed internazionali sulla mitigazione dei rischi connessi a tali attività. Da un lato la moltiplicazione della possibilità di creare denaro dal nulla mediante il credito, dall’altro l’inondazione dei mercati di titoli obbligazionari, più o meno strutturati, non sempre esenti da «tossicità», ovvero di altro denaro sotto forma di strumenti finanziari. Non è secondario, quindi, che l’Italia, nel mercato europeo delle cartolarizzazioni, si collochi al quarto posto, dopo Regno Unito, Olanda e Spagna.

Tornando all’attualità, potrebbe risultare contraddittorio che l’Unione Europea, da un lato punti i suoi riflettori sul sistema bancario italiano, e sulle scelte del governo in tema di risoluzione del nodo «sofferenze», dall’altro lavori all’adozione di un  finalizzato alla creazione dell’Unione dei Mercati di Capitali in ambito comunitario, al cui centro c’è proprio il «rilancio delle cartolarizzazioni» e un incremento delle attività finanziarie, anche ad alto rischio.

Evidentemente, le preoccupazioni delle autorità di Bruxelles si concentrano sulle modalità di smaltimento dei titoli spazzatura, non sulla necessità di riformare un sistema in cui gli stessi costituiscono il prodotto «fisiologico» della creazione dal nulla (e quasi illimitata) di denaro da parte delle banche.

E le cartolarizzazioni, come si è visto, da questo punto di vista possono costituire un ottimo purgante per le banche, lo strumento principe per scaricare la feccia finanziaria nel mercato degli Asset backed securities (o ABS), con buona pace dei risparmiatori, soprattutto se ignari della qualità del prodotto che hanno acquistato.

E il governo italiano? Stesse preoccupazioni, ricetta diversa (bad-bank). Almeno in apparenza. Nessuno, però, ha interesse a puntare il dito contro il vero problema: l’insostenibilità dell’attuale modello di accumulazione finanziaria.

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