Chi sono i produttori? Il primo volume della Storia orale del cinema italiano, edita in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia, comincia proprio con loro, fondamentali nella realizzazione dei film, ma non sempre notissimi al pubblico e forse talvolta anche ai critici. Per i soldi o per la gloria Storie e leggende dei produttori italiani dal dopoguerra alle Tv private (minimum fax, pp. 517, euro 23,00) di Domenico Monetti e Luca Pallanch è la mappa che non c’era per orientarsi fra le strategie e gli obiettivi dei titolari delle case di produzione italiane. Studiosi di grande esperienza – da anni si occupano del cinema di ieri e di oggi di serie A, senza disdegnare la serie B -, gli autori ostentano la divertita disinvoltura dei cinefili appassionati e maliziosi. Nel libro si passa facilmente dal produttore che ha come target di riferimento il cinema d’autore ma, per far quadrare i conti, non disprezza prodotti più di cassetta a chi fedelmente sposa la sua attività a quella di uno o due registi, dal «capitano coraggioso» che aspira a superare i confini della penisola per affermarsi nel mercato internazionale, al produttore che saccheggia un po’ tutti i generi in voga, sfornando pellicole in serie. Il libro dà voce a questi personaggi che hanno iniziato la loro attività negli anni Sessanta e Settanta. Per muoverci nel campo minato della produzione abbiamo rivolto qualche domanda a Domenico Monetti e Luca Pallanch, che hanno scelto di rispondere usando il «noi» proprio come una delle tante coppie protagoniste del libro.

Come nasce il progetto del libro?
Parte dall’idea di raccogliere le testimonianze dei rappresentanti dei vari mestieri del cinema, poi abbiamo corretto il tiro puntando solo sui produttori, che non hanno mai avuto la possibilità, tranne poche eccezioni, di raccontare le loro storie e quindi di esprimere la loro visione di vita e di lavoro, indissolubilmente intrecciate. Ci sembrava giusto restituire anche a loro il diritto di parola, spesso negato in nome di un’autorialità, vera o presunta.

La storica antitesi tra regista e produttore…
È spesso una leggenda che ripropone l’immagine di un produttore stereotipato e folkloristico, mentre ci siamo trovati di fronte a persone, prima ancora che imprenditori, l’una diversa dall’altra. Dal produttivo creativo che concepisce i film e chiama un regista di fiducia per realizzarlo, come l’attivissimo Galliano Juso, al produttore che ha scalato tutti i gradini della professione, maturando una grande esperienza sul campo, come Bruno Altissimi, o al produttore con spiccate competenze amministrative e finanziarie, che si presentava sul set solo nelle pause pranzo, come Adriano De Micheli. Fino ai pochi industriali prestati al cinema che hanno tentato di trasformare il cinema italiano in una vera industria, come Giorgio Leopardi.

Com’è avvenuta la scelta dei produttori da intervistare?
Premesso che Per i soldi o per gloria è la prima parte di un progetto più ampio, di cui vedrà la luce prossimamente un secondo volume, abbiamo cercato di raggiungere tutti i produttori viventi che hanno debuttato nel cinema, a vario titolo, dal dopoguerra in poi, fino al boom delle tv private, che segna un cambiamento radicale e irreversibile. È stata una corsa contro il tempo che ci ha visto talvolta soccombere. Ci rimane il grande rimpianto di non aver potuto intervistare piccoli e grandi personaggi di quell’epoca aurea, in cui i produttori spuntavano come funghi.

Alcuni dei produttori intervistati hanno proseguito l’attività anche nell’attuale sistema produttivo, condizionato dalla televisione e dalle piattaforme, come Fulvio Lucisano, Antonio Avati e Elda Ferri.
Con queste figure a cavallo tra due, o forse più epoche, perché il cinema contemporaneo ha cambiato pelle a ogni decennio, è stato inevitabile sporgere lo sguardo sulla realtà odierna e cogliere i mutamenti in atto. Quindi è un libro originato da una vena nostalgica nello stile del Bogdanovich de L’ultimo spettacolo e dei suoi magnifici ritratti del cinema hollywoodiano classico, ma fortemente immerso nel presente, soprattutto per chi voglia leggere in controluce le storie dei nostri protagonisti.

Nelle conversazioni tra voi e il produttore di turno, sospendete il giudizio critico sulla loro attività e sui singoli film per privilegiare il compito che vi siete assegnati di raccogliere le loro memorie, nello spirito di una storia orale del cinema.
Non ci interessava sparare sentenze o ammorbare i nostri interlocutori e i lettori con riflessioni critiche viziate da pregiudizi di qualunque natura. Quello che ci premeva era riuscire a carpire ogni aspetto della loro carriera per soddisfare la nostra curiosità, spesso morbosa, e restituire di ognuno il tratto umano e la personalità. Tutto questo nelle poche ore a disposizione, che poi si sono reiterate durante il lockdown, quando siamo passati dalle interviste in presenza a lunghe conversazioni telefoniche senza più vincoli di orari. Ogni intervista ha una controstoria, fatta di appuntamenti, scale di palazzi, uffici, appartamenti: si potrebbe tracciare una mappa urbana di questi incontri estemporanei, sconfinando in racconti alla David Foster Wallace.

Le interviste sono suddivise in sezioni, precedute ognuna da un’introduzione, al fine di costruire una struttura architettonica dell’opera. Nella prima sezione citate la fulminante battuta di Monicelli «semo tutti parenti».
C’è una vena ironica che abbiamo cercato di far emergere e valorizzare. Iniziare con la sezione delle dinastie può suonare come una provocazione, ma in realtà anche quella del produttore è una professionalità che si può tramandare con successo di padre in figlio o in virtù di altri legami di parentela. Ci piaceva evidenziare, fin dall’inizio, che il cinema italiano è anche un’azienda, se non un’industria, a conduzione familiare. Tra le grandi famiglie della cultura italiana meritano il loro posticino anche gli Infascelli, le cui diramazioni coprono varie generazioni e vari ambiti e meriterebbero una pubblicazione a sé, dopo il film Zuppa di pesce di Fiorella Infascelli. Ma anche famiglie più strettamente cinematografiche, come gli Amati, andrebbero approfondite e studiate nelle connessioni strettissime tra produzione, distribuzione ed esercizio.

C’è spazio anche per la sezione dei produttori formatisi al Centro Sperimentale di Cinematografia.
Il cinema si impara facendolo, ma anche studiandolo, soprattutto oggi in cui sono imprescindibili competenze specifiche di natura giuridica ed economica, tra bandi, finanziamenti pubblici, agevolazioni fiscali e altro ancora. Prima ci si poteva improvvisare produttori, specie nell’epopea del western all’italiana, in un sistema peraltro florido, in cui i film varcavano i confini e venivano venduti in mercati impensabili, spesso sulla carta, ovvero su un titolo, un manifesto e attori di richiamo. Enzo Doria, nato attore – allievo al Csc e interprete di uno dei paparazzi de La dolce vita di Fellini –, si vantava di aver prodotti i film con il sistema delle cambiali, senza capitali propri. E ha legato il suo nome ai Pugni in tasca di Marco Bellocchio, Grazie zia di Salvatore Samperi e I cannibali di Liliana Cavani. Tanta roba! Nel clima felice degli anni Sessanta, per citare Tano Festa, si producevano i film per i soldi o per la gloria, ma prima ancora… con o senza soldi!