I signori dell’arte sui muri di Kabul
Street Art A Lugano in mostra la filosofia di "Artlords": cancellare le barriere della città, creare ponti
Street Art A Lugano in mostra la filosofia di "Artlords": cancellare le barriere della città, creare ponti
Lugano – Un talebano che al posto del Kalashnikov porta in spalla una grande matita. Il simbolo di Usaid – l’agenzia di cooperazione americana – di fianco a una bomba che cade dal cielo. Un ragazzino e un cane che fan pipì su un cumulo di AK47. Sono alcuni dei disegni di strada riprodotti in fotografia che Kabir Mokamel e Omaid Sharifi hanno messo in mostra nei giorni scorsi a Lugano, progetto itinerante per mostrare in Europa come si può trasformare un muro di protezione in cemento armato in un’opera d’arte. Un muro che separa in un ponte di dialogo. Collettivo. Come le opere d’arte fotografate ed esposte alla Galleria Doppia V della città ticinese. Le mani di vernice che, nelle sagome disegnate dai due pittori al tratto in bianco e nero, riempiono i buchi con il colore, sono opera di gente di passaggio: curiosi che si fermano a guardare e che poi possono contribuire a completare il disegno. Alla fine “questi stupidi muri di Kabul che proteggono ambasciate, caserme, ville di ricchi residenti o espatriati – dice Kabir Mokamel – diventano opere d’arte”.
Opere di tutti, dallo spazzino alla signora che va a far la spesa, dallo studente che passa per caso, al tassista che si ferma e ci mette del suo. La mostra di “ArtLords” e la presenza di Kabir e Omaid – che hanno dipinto nei giorni scorsi con studenti, cittadini, ragazzi un muro della città al Parco Tassino di Lugano – è stata organizzata nella capitale della Svizzera italiana da un giovane ma caparbio giornalista ticinese, Filippo Rossi, che a Kabul ha visto i muri trasformati e ha fatto di tutto per trasferire questi Banksy afgani in Europa. E’ l’occasione per farsi spiegare che storia c’è dietro e come nasce un’idea semplice ma forte iniziata ormai cinque anni fa. Un inno alla pace o alla stupidità crudele del guerra ma non solo. I muri di Kabul ora son pieni di messaggi tra cui due grandi occhi diventati famosi come uno slogan contro la corruzione perché, anche se lo fai di nascosto, Allah ti vede…
L’idea nasce nel 2014 nella testa di Kabir, di Omaid e di sua moglie Lima. Girano per le strade della capitale afgana tra intere aree delle città circondate da muri grigi in cemento armato alti tre-quattro metri: “Corridoi – dice Kabir – corridoi in cui la gente è obbligata a camminare tra caserme, ambasciate, residenze protette. Orribili ma non potevamo buttarli giù. Trasformarli si. Potevamo farli sparire ricoprendoli di immagini e messaggi; di immagini che sono messaggi. Abbiamo cominciato con quei due grandi occhi che hanno colpito l’immaginario di tutti: ti posso vedere, ti vedo, ti vede Dio. Rapidamente quei due occhi sono diventati un simbolo di lotta alla corruzione. Una forza. E così siamo passati ad altri temi: i diritti umani, quelli dei bambini, quelli delle donne. E poi gli eroi. Ma non quelli della guerra, non quelli dei Warlord: quelli di ArtLord. Una provocazione che mette al centro altri eroi. I nostri eroi sono quelli che puliscono le strade, ad esempio, e che hanno una scopa al posto del Kalashnikov”.
Passeggiamo accanto all’immagine di uno spazzino che dentro la carriola in cui raccoglie la spazzatura ha invece un enorme cuore rosso. “Ci interessava coinvolgere e con l’arte si può. L’arte va oltre, consente anche a chi è analfabeta di esprimersi con i colori. Ci siamo ritrovati a volte con centinaia di persone che coloravano i muri assieme a noi”. Prima curiosi poi attori. Prima comparse, poi protagonisti. “Questa è la filosofia di ArtLords: la gente, quelli la cui voce non si sente mai, sono i veri protagonisti della guerra. Il muro allora diventa un ponte. Sparisce e l’immagine si fa parola, softpower, coscienza”.
Nel 2014 all’inizio è dura. Vengono guardati con sospetto ma poi la polizia finisce a lasciar in pace chi dipinge: “Sai perché? – dice Kabir – Perché la nostra è una forza etica, così potente che persino i talebani hanno rispettato il nostro lavoro. E’ arte del popolo dal popolo. Un potere dal basso che non si può cancellare. E la gente impara che può dipingere, che in realtà – se ci si mette – sa farlo benissimo. Le donne ad esempio: sono bravissime ma non lo sapevano. Nessuno aveva mai dato loro in mano un pennello e una scelta di colori. E così i bambini di strada. Mi ricordo le prime volte. Arriva uno di questi ragazzetti stracciati che chiedono un afghanis di mancia nelle code del traffico. Ehi zio – mi dice – posso provare anch’io? Poi chiama altri amici e ne arrivano a frotte. Una festa. Vedono il loro talento che vien fuori. Mi vien da ridere a pensare che poi, quando fermavano me per chiedermi un afghanis per pulire i vetri dell’auto, arrivava qualcuno a dire ai compagni: A questo devi pulirgli il vetro ma senza farlo pagare!”
ArtLord diventa un’impresa. Adesso ci sono diciotto persone in un ufficio affittato dalle parti dell’università, cinquanta artisti e un gruppo di un centinaio di volontari. La struttura si auto mantiene: “Abbiamo iniziato a a lavorare con organizzazioni internazionali che ci commissionano campagne. Quella contro la polio ad esempio”. Dunque anche uno spazio di lavoro, di arte grafica che vola oltre la street art e che è anche un luogo per i giovani di Kabul in un mercato del lavoro dove ogni anno si affacciano 400mila nuove persone in cerca di occupazione. Attorno la guerra. Comunque. E la domanda è inevitabile perché, certo, dipingere i muri non è sufficiente. Cosa ne pensa Kabir dei colloqui di pace in corso tra talebani e americani a Doha? Del negoziato iniziato mesi fa che per molti rappresenta una speranza? Risponde caustico: “Peace Talks? Io li chiamo Piss Talks. Non ci credo come non credo alla Dronokracy”. Eccolo li il ragazzino che piscia sul Kalashnikov o la bomba che cade dal cielo come gli aiuti promessi dagli stranieri. “Non è incredibile – conclude Kabir – che a parlare di pace siano delle persone che hanno fatto della violenza la loro bandiera? Non è assurdo che si decida il destino degli afgani senza coinvolgere gli afgani, a porte chiuse? Non ha alcun senso parlare del nostro futuro senza di noi”.
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