Cultura

I settantadue giorni del Moro ad Algeri

I settantadue giorni del Moro ad Algeri

KARL MARX Il romanzo di Roberto Franchini, edito da Pendragon, ne restituisce «l’ultima fotografia». La città africana si rivela per lui come fallimento di quell’esotismo necessario al potere centrale di Parigi

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 15 febbraio 2019

«Ho scelto il vapore Saìd, mi dicono che è uno dei migliori e io lo spero. Non vorrei cominciare questo viaggio ancor peggio di quanto la mia pleurite mi conceda. Valigia o non valigia la tosse ha ripreso a tormentarmi. Conosco un solo rimedio per calmarla, bere un paio di bicchieri di cognac». In fila con una folla di umani spenti e tristi su una banchina del porto di Marsiglia come un «borghesuccio qualunque», come l’«ultimo burocrate dello Stato francese, come un colono che parte per andare a zappare la terra su un altro continente» non è una viaggiatore qualsiasi: è Karl Marx che si prepara a partire per l’Algeria.

È IL 18 FEBBRAIO del 1882 e, a sessantaquattro anni e dopo la morte dell’amata moglie Jenny, a spingerlo realmente a questo viaggio è il suo bisogno di ristabilirsi dalle malattie che lo affliggono per portare a termine Il Capitale , e naturalmente dopo i consigli dei medici, degli amici e dei compagni, in primo luogo quelli di Engels. Ecco dispiegato il materiale biografico vero ma difficile del romanzo di Roberto Franchini L’ultima fotografia di Marx (edizioni Pendragon, pp. 121, euro 13). Argomento refrattario, perché la scelta di raccontare il periodo del declino della vita del grande pensatore di Treviri poteva insistere su questo retroscena comunque militante della «devozione alla causa», come ricorderà la stessa figlia di Marx, Eleanor. Invece nella forma di quasi note di diario e in prima persona, è lui stesso a descriversi come essere umano piegato dai dolori fisici, solitario e quasi misantropo, infastidito dalla superficialità del mondo e solo intento a riannodare gli affetti dispersi rimasti, quelli delle figlie e dei nipoti .
Ma questa sua prima e unica sortita fuori dall’Europa che gli ha dato i natali e che è la fonte politica, sociale ed economica del suo lavoro di analisi e di militante comunista della Prima Internazionale, nella terra africana da poco diventata colonia con altri territori della Francia imperiale, sarà per lui, quasi di controvoglia, rivelatrice di un mondo di esseri viventi in sofferenza e lotta fin ad allora avvertito solo teoricamente nelle Forme economiche precapitalistiche.

COSÌ LA SCOPERTA di Algeri si rivela per lui come la rappresentazione fallimentare di quell’esotismo necessario al potere centrale di Parigi, utile soltanto a conservare il dominio su un mondo arretrato da salvare con la «nostra civiltà». E la città bianca, nella vista che gli si para davanti dall’hotel Victoria – quasi una clinica – dov’è alloggiato, svela la sua omologazione alle città occidentali che ha appena lasciato. Complice il tempo che per 72 giorni sarà eguale se non peggiore a quello di Londra; fatta salva la novità dello scirocco e dello sbalzo dal caldo al freddo, tipico della costa nordafricana in inverno. L’agognata andata a Sud, «dove il nostro cuore volge», trent’anni dopo sarà ben più propizia per Freud. A Marx tocca un Sud come il Nord. Impossibile nell’omologazione dei punti cardinali scorgere allora i tratti distintivi della casbah vecchia e in rovina, dell’Algeri degli algerini sottomessi.

Possibile solo partecipare, tra un colloquio privato e l’altro con gli ospiti dell’albergo, e tra un medicamento doloroso e l’altro al quale si sottopone, come le vescicazioni per estrarre dalla pelle del torace acqua dai polmoni malandati afflitti dalla pleurite, disvelare a se stesso il mistero di quella città. Come in un tour, contrassegnato dal «diario» che l’autore del romanzo Roberto Franchini ha sapientemente costruito, scopre la centrale piazza del Governo che è poi quella delle esecuzioni – ne parla anche Marcello Musto nella sua importante biografia su Marx, riferendo l’episodio a una lettera da lui inviata a Engels -; e lì, su quella piazza la ghigliottina non perdona gli algerini musulmani, perché può capitare che, dopo le torture, si infligga ufficialmente la promessa fucilazione al malcapitato colonizzato, per poi praticargli il taglio della testa tra le proteste della famiglia che invoca l’attesa di Maometto del corpo integro nell’aldilà e l’euforia morbosa degli spettatori, una folla mescolata di francesi, europei, africani ex schiavi, algerini ed ebrei, i tantissimi ebrei della comunità algerina. Tutti quanti accomunati dalla ricerca di una identità e di una destinazione perdute.
Lo soccorrono, lui che avverte dentro di sé lo stesso scoramento «triste di don Chisciotte», in questi quasi due mesi e mezzo algerini pieni di nostalgia per la moglie Jenny morta l’anno precedente, il medico curante Stephann e il giudice Albert Fermé, figura reale, centrale in quanto reduce della Comune di Parigi e ora alle prese con la gestione della malcerta giustizia dell’amministrazione coloniale francese.

LE SOFFERENZE della sua malattia non mutano, ma intorno, appena percettibili, avvengono trasformazioni epocali. Mentre il romanzo assume la forma di una distaccata cartolina inviata da lontano. Marx annota dunque quel che scopre casualmente. Che si avvia in forme organizzate il turismo come industria; che fa capolino la pubblicità per vendere, già nelle strade dove gli ex schiavi neri ballano al seguito di commercianti mori per vendere arance e polli; che un pittore famoso – si adombra la figura di Renoir che Marx non incontrò ma che arrivò ad Algeri nello stesso periodo – si presta a decorare le forme dell’orientalismo che serve ad abbellire e a mitizzare il potere che sta a Parigi; che i colonizzati ricchi si propongono come classe dirigente, interlocutrice degli oppressori e anticomunista; e, che ai margini dell’impegno nella lotta, vivono persone come il botanico Durando che ha conosciuto Fourier, che laboriosamente e quotidianamente salva nel Giardino di Hanna l’ordine naturale di tutte le piante e degli alberi del Nord Africa, più semplice a quanto pare che salvaguardare un nuovo ordine tra europei, mori, arabi, tuareg, africani ed ebrei.

SEMBRA QUASI un nuovo incanto privato, ma «non so cosa sia il mal d’Africa», pronuncia forte e nervoso il Marx protagonista del romanzo. E se la salute un po’ migliora, la vera malattia è la vecchiaia. Nel dolore e nella delusione di non avere potuto mettere le mani sull’Opera che vuole completare – Il Capitale – l’unica speranza ormai è tornare in Francia dalla figlia Jenny, dal nipote Johnny che lo aspetta per nuovi racconti immaginari, e anche dagli insopportabili cognati come Paul Lafargue. Ma come presentarsi? Cambiando immagine, tagliando i capelli della «cuspide pelosa che ho in testa» e la barba della «bianca aureola» che porta attorno al viso. Lo riconosceranno lo stesso. Anche perché si presenterà loro con una nuova sua fotografia, l’ultima in vita, quella di un sessantaquattrenne aperto al mondo che ride dolce e sereno, pur consapevole che «nessuna arte sa dare una immagine peggiore dell’uomo che la fotografia».

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